domenica 22 agosto 2010

Businness as usual


Uno studio della ricercatrice Sharon Lamb dell' Università del Massachussets sui comics americani ha posto l'accento sul carattere diseducativo che contraddistingue i supereroi attuali, egoisti cattivi e dediti a una violenza fine a se stessa, a differenza dei loro predecessori quasi tutti animati da sentimenti di solidarietà e giustizia. Facendo un po' di confusione tra eroi visti al cinema e quelli sulla carta stampata, la Dottoressa punta l'indice sull'evoluzione di personaggi come Iron Man, dove il multimiliardario Tony Stark quando non indossa la corazza rossa e oro è dedito a sciupare femmine e a spendere e spandere, mentre un tempo gli eroi quando smettevano le calzemaglie e tornavano in abiti civili erano in tutto e per tutto persone comuni con difetti e carenze in cui potersi identificare, si pensi al Clark Kent/Superman timido e impacciato o al Peter Parker/Spiderman adolescente sfigato.
Dallo studio condotto tra lettori e operatori del settore emerge come ai lettori di oggi vengano proposte due sole tipologie di eroi dove in entrambi si è persa la dimensione umana: il cosiddetto player, eroe a tempo pieno animato perlopiù da desideri di vendetta con scarso senso di solidarietà, e lo slacker, un personaggio buffo, comico, disimpegnato e deresponsabilizzato, entrambi cattivi modelli per i giovani odierni.
In effetti se si sposta l'attenzione sulle trasposizioni cinematografiche dei personaggi fumettistici verrebbe da dar ragione allo studio della ricercatrice americana e a constatare come la distinzione fra eroe/bene e cattivo/male è venuta via via scemando fin quasi ad annullarsi. Batman ad esempio è passato dalle fattezze rassicuranti di Michael Keaton e George Clooney, che con Val Kilmer hanno interpretrato l'Uomo Pipistrello nei primi film della serie, ai tratti antipatici e duri di Christian Bale nelle ultime due pellicole. Anche i villains hanno subito un mutamento in peggio, evidente se si paragona la visione ingenua e caricaturale del Joker interpretrato da Jack Nicholson nel primo film di Tim Burton del 1989, a quella intrisa di violenza e follia allo stato puro dell'interpretrazione, magistrale, di Heath Ledger nell'ultimo film della serie, Il Cavaliere Oscuro del 2008. In quest'ultimo film in particolare la contrapposizione buono/cattivo viene meno in maniera eclatante: il Joker è uno psicopatico assassino senza scrupoli di sorta (ma è quello che suscita le simpatie maggiori), il procuratore Harvey Dent (buono) diventa Two Face (cattivo), il tenente Gordon non esita a mentire alla propria famiglia seppure in buona fede, Batman stesso non esita a usare modi violenti pur di arrivare a sconfiggere il suo nemico (in una scena di inseguimento a bordo della Batmobile causa più incidenti lui che il Joker) e alla fine ad accettare coscientemente il ruolo di cattivo, necessario tuttavia per sconfiggere il male. Il tutto si muove in un clima da apocalisse dove i soli messaggi positivi arrivano dal maggiordomo Alfred, ma è impensabile che qualcuno prenda ad esempio un servitore, e da un ergastolano che si rifiuta di far saltare una nave (idem come sopra). In tutto il film quindi i concetti di bene e male sono confusi e spesso ribaltati, lasciati più che altro all'interpretrazione di chi assiste.
Accenni di deriva si erano visti anche in Spiderman 3, seppure in maniera meno marcata, quando con l'arrivo del clone il timido Peter Parker aveva assunto atteggiamenti arroganti e antipatici che però gli garantivano fortuna e successo. Qui però l'eroe torna presto in sè, ma rimane il dubbio che ad essere egoisti e scorretti qualche vantaggio lo si ricava.
C'è da dire che rivisitazioni di modelli in chiave degenerativa si erano visti anche in ambiti non strettamente fumettistici ma che riguardavano pur sempre eroi modelli di riferimento, basti pensare allo 007 attuale interpretrato da Daniel Craig e confrontarlo con il James Bond recitato da Sean Connery per accorgersi che qualcosa è cambiato con l'andare degli anni.

Teorie fantasiose vogliono certe scelte un preciso disegno di indirizzamento sociale, data la quantità di persone che questi prodotti riescono a raggiungere e, si pensa, a influenzare. Se pensiamo all'utilizzo che a volte si è fatto di alcuni eroi, come il Capitan America anni '40 impegnato contro i Nazisti, o certe uscite editoriali post settembre 2001, verrebbe quasi da crederci, non fosse che la realtà probabilmente è molto più semplice se si ribalta la questione su chi influenza chi, e su cosa sia il fumetto americano.
A differenza del fumetto nostrano che mantiene, o cerca di farlo, un carattere artistico, negli Stati Uniti i comics, così come il cinema, sono quasi esclusivamente un fenomeno commerciale. Nascono sulle pagine dei quotidiani per far vendere di più, crescono poi autonomamente per raggiungere il maggior numero possibile di persone e quindi vendere il più possibile. Ovvio dunque che seguano regole più commerciali che artistiche, adattandosi ai tempi e inseguendo i gusti, spesso solo presunti, della gente. Mentre in Italia un personaggio come Tex Willer resiste per cinquant'anni senza cambiare una virgola dell'impostazione originale in barba al cambiamento dei tempi, adattando le logiche commerciali non al carattere del personaggio ma ad aspetti secondari del prodotto (diversificando le uscite, proponendo ristampe o versioni diverse), in America il gusto dei lettori ma soprattutto la necessità di un ritorno economico è prioritario e decisivo nella scelta delle storie. Soluzioni come la Morte di Superman, il cambio di costume di Spiderman o altre trovate del genere si spiegano solo in questo modo del resto.
Negli anni '60 l'esplosione dei personaggi Marvel fu dovuta all'intuizione geniale di autori come Stan Lee e Jack Kirby che capirono lo spirito dei tempi e proposero modelli di eroi che potessero incontrare il favore del pubblico, cosa che avvenne con successo. Le nuove generazioni di americani avevano fame di cambiamento, spirito di contestazione, desiderio di nuovo, problematiche diverse da quelle dei propri genitori e, soprattutto, più dubbi rispetto a loro. Eroi tutto d'un pezzo come Superman o Batman o altri dell'universo DC, integerrimi e sempre leali anche nella vita privata e che non mettevano mai in discussione i loro principi ispiratori, erano distanti dal loro sentire, mentre i "supereroi con superproblemi" di nuova generazione furono senz'altro più vicini ai loro sentimenti e alle loro aspettative. La violenza in questo genere di fumetto c'era anche allora, l'unica differenza rispetto ad oggi è tutta nel fatto che a menare fosse brava gente per una giusta causa.
Il successo di nuovi eroi come L'Uomo Ragno, i Fantastici Quattro, Hulk, Iron Man, Thor, fece da traino a un vero e proprio universo di eroi, nati per sfruttare il nuovo filone d'oro. Il carattere commerciale alla base era assicurato, e quello moralistico era sempre presente seppure in maniera diversa rispetto al passato, ma qui c'è da ricordare un fattore essenziale: dietro un personaggio c'è sempre chi lo scrive, riflette dunque in qualche maniera il proprio autore. Ognuno di questi autori, tranne rare eccezioni, è influenzato da chi lo ha preceduto, mantiene il messaggio di base e va oltre, proponendo a sua volta il proprio mondo oltre a quello esterno. Quello che accade oggi nei comics e nel cinema a lui legato è dunque figlio di ciò che è venuto prima, e prima c'è stato quel cambiamento epocale avvenuto negli anni '80 ad opera di autori come Alan Moore e Frank Miller coi loro Watchmen e Il Ritorno del Cavaliere Oscuro. Queste opere hanno rivoluzionato il modo di intendere i supereroi modificandone i principi ispiratori e facendone non più solo un prodotto per adolescenti un po' disadattati ma un prodotto adulto destinato a gente adulta. In Watchmen non più eroi integerrimi e leali con superpoteri e al di sopra della parti, ma semplici uomini con grandi doti ma anche grosse lacune morali, in Batman addirittura si invecchia il protagonista e se ne mostrano tutti i limiti. Se salvaguardiamo alcune opere successive di alcuni disegnatori come Dave McKean e Alex Ross, dove l'elemento disegno è preponderante sulle per quanto valide storie, il fumetto americano supereroistico poteva tranquillamente morire lì, pietre miliari e tombali allo stesso tempo, assoluti capolavori che in qualche maniera, forse non volendo, hanno tracciato una rotta seguita poi da altri.
Il punto è proprio questo. Oggi chiunque scriva comics è destinato a confrontarsi volente o nolente con quelle opere punto di riferimento che hanno influenzato il modo di intendere un supereroe così come a suo tempo era avvenuto con gli eroi Marvel. Se a ciò aggiungiamo il cambiamento avvenuto in seno alla società, diventata più individualista e meno sensibile alle questioni morali, e ricordando che qualunque fumetto è pur sempre una visione distorta di ciò che è reale, ecco che improvvisamente tutto il mondo supereroistico è diventato senza saperlo un prodotto per adulti a cui non necessariamente bisogna aggiungere elementi educativi (si presume che un adulto non ne abbia più bisogno).
C'è da dire che qualcuno si è accorto di come la cosa stesse degenerando molto prima che arrivasse lo studio della Lamb. In Venga Il Tuo Regno del 1996 gli autori Mark Waid e Alex Ross proponevano una lotta fra Superman e altri eroi della vecchia guardia contro le nuove generazioni di eroi, violenti e incuranti del prossimo. Lo stesso Alan Moore dal canto suo dopo aver contribuito a rivoluzionare l'universo supereroistico ha fatto un passo indietro e ha scritto storie di supereroi decisamente più classiche, quasi a voler espiare per aver scritto Watchmen.

In definitiva lo studio della Lamb è veritiero, l'industria dei comics attuale non sforna un prodotto educativo, ma essendo un prodotto commerciale a ben pensarci non si proponeva di farlo nemmeno quella di una volta: se educava era per frutto del caso, dei tempi e della natura dei propri creatori. Semplicemente è cambiato il mondo attorno e i comics coi loro autori lo riflettono, come hanno sempre fatto.

giovedì 19 agosto 2010

Scopritori d'acqua calda

A leggere certe cose mi viene da ridere per non piangere. A questi geni vicini a Gianfranco Fini che pretendono di Fare Futuro senza conoscere il Presente e senza aver capito il Passato ci sono voluti solo sedici anni per arrivare a capire ciò che ad altri era evidente da subito e a cui dovrebbero come minimo delle scuse.
Sedici anni, sticazzi! Per dire, a smettere di credere a Babbo Natale io ci ho messo molto meno. Certo, meglio tardi che mai, ma è un peccato che questi si accorgano dell'esistenza del fuoco solo ora che l'acqua è bollente e la casa sta bruciando.
Com'è che recitava quella canzone? Ah, sì:

The roof, the roof, the roof is on fire.
We don't need no water let the motherfucker burn
Burn motherfucker burn.

E che si scottino in tanti.

Bloodhound Gang - Fire water burn

lunedì 16 agosto 2010

Agosto '44

(Se avete tempo da perdere.......)
.
La voce continuava a risuonargli in testa e le parole si ripetevano uguali, infinite volte: “Allora intesi, voi due rimanete qui fino a domattina”, dicevano e anche “Occhi aperti, mi raccomando”, e poi parole come “coraggio” e “compagni”, forse anche suoni di saluto, e nella mente rivedeva, da lontano, l’uomo della voce scomparire nel bosco proprio sopra di loro. Lo videro, lui e Valerio, inerpicarsi sul sentiero usato dai taglialegna e ne udirono i passi ancora per qualche minuto, poi il silenzio si fece intenso, ognuno si rifugiò nei propri pensieri, che per lui erano quel ripetersi uguale di una situazione banale.
Il compagno di quella veglia, Valerio, almeno così si faceva chiamare, si era accovacciato a ridosso di un pino. Teneva in mano il vecchio fucile e ogni tanto lo stringeva più forte. Lui stava di fianco, il mitra posato davanti pronto ad essere imbracciato, e guardava la valle sotto di loro mentre lasciava spazio a quegli unici pensieri dettati dalla stanchezza.
Come postazione era ben scelta. Dietro erano riparati dal Gran Bosco, e l’unica strada che veniva da sopra era quella che portava al rifugio dove i compagni avrebbero trovato riparo, un paio d’ore di cammino più a monte. A poca distanza dalla postazione c’era una specie di bunker in cemento dove poter riparare in caso di attacco, probabile quella notte. Da lì potevano controllare la strada che saliva dalla frazione e riuscivano a vedere fino giù, in paese, dove le forze nemiche si erano assestate, e in caso di un loro movimento avvisare in qualche modo i compagni in fuga.
“Pensi che verranno?” chiese Valerio rompendo il silenzio.
Mario si girò verso il ragazzo, stupito da quella domanda. Era certo che sarebbero venuti. Da giorni non facevano altro che braccarli, spingendoli sempre più su per le montagne e adesso che li avevano a portata di mano non si sarebbero certo lasciati sfuggire l’occasione. Avrebbe voluto dirgli di non fare domande stupide, ma Valerio era giovane, troppo per quelle cose, e inoltre mostrava segni di nervosismo da quando il loro comandante Lupo li aveva destinati a quell’incarico: “occhi aperti, mi raccomando”. Chissà perché Lupo aveva deciso di lasciare in mano a un vecchio e a un ragazzo quell’incarico così delicato. Ma forse era una domanda stupida anche questa: un vecchio e un ragazzo sono più sacrificabili di altri, e un capo deve saper prendere anche decisioni difficili.
“Forse”, rispose Mario e fece per accendersi una sigaretta.
La teneva nascosta nel palmo della mano, per evitare bagliori, un gesto ripetuto tante volte nelle notti di guardia in trincea, quasi trenta anni prima. Aveva passato gran parte della sua vita a combattere, senza avere possibilità di scelta, spesso senza manco chiedersi il perché. L’unica volta che aveva potuto scegliere il destino lo aveva portato su una montagna del Piemonte, a mille e più km da casa, e ora gli chiedeva di dividere la guardia con un ragazzo di un terzo dei suoi anni.
“Vuoi?” chiese Mario porgendo la mano con la sigaretta a Valerio.
“No", rispose senza girarsi, "Non fumo”.
“Male. Di un uomo senza vizi non c’è da fidarsi” disse il vecchio abbozzando un sorriso.
Valerio si voltò a guardarlo, di scatto.
“Ehi, non volevo offenderti”, disse Mario, “E’ per sdrammatizzare”.
Il ragazzo voltò la testa a valle e strinse le mani sul fucile ancora più forte.
Trascorsero alcuni minuti in cui il solo rumore era dato dal bosco che si agitava alle loro spalle. Mario pensò che forse non era il caso di voler sdrammatizzare. Forse il ragazzo era uno di quelli che prendeva la faccenda seriamente e bisognava lasciarlo stare. Per quello che lo riguardava non prendeva più seriamente quel genere di cose ormai da tempo. Erano cose della vita, punto e basta, non valeva la pena dargli troppa importanza. Era un buon modo per rimanere vivi, pensava, quello di non aver paura di morire.
“Tu pensi che io non valga nulla.” disse Valerio interrompendo il pensiero di Mario, a cui ci volle un attimo prima di rispondere con un tono un po’ scocciato, perché i pensieri che gli stavano venendo gli sembravano piuttosto profondi e degni di essere seguiti, ma si sforzò di non darlo a vedere.
“Non ho detto questo”, disse, e non avrebbe voluto proseguire, ma il ragazzo continuava a guardarlo come se aspettasse un seguito alla sua risposta, e in effetti, pensò Mario, da come la aveva posta lui stesso un seguito sembrava dovesse esserci. In realtà finora non si era posto il problema di farsi una idea del ragazzo, gli sembrava una operazione inutile. Se davvero non valeva nulla si sarebbe visto, presto o tardi, e se valeva qualcosa lo avrebbe dimostrato, presto o tardi. Disse infine, ma solo perché non gli sembrava giusto negare a un giovane almeno il conforto delle parole, che in realtà non lo conosceva e quindi non poteva giudicarlo, sempre che bisognasse farlo.
Il ragazzo continuava a fissarlo. “Non è stata colpa mia” disse piano, abbassando gli occhi.
“Ormai è fatta” rispose Mario aspirando una boccata di fumo, poi lo invitò a stare tranquillo e a riposare: “Il primo turno lo faccio io. Ti sveglio tra un paio di ore per darmi il cambio”.
Valerio seguì il suo consiglio e si sdraiò voltandogli la schiena, lui cercò una posizione più comoda e guardò in basso, a valle.
Era una notte serena e la luna illuminava bene il sentiero sotto di loro. Lontano, giù, in paese, le luci erano tutte spente, e per quel che si poteva vedere tutto sembrava tranquillo. L’uomo si concentrò meglio sulle case dabbasso, cercando di scorgere qualche segnale di movimento, ma non vide nulla oltre quello che gli parve un cane nel cortile adiacente una specie di fienile.
“Non è stata colpa mia”, Mario ripensò a quelle parole e decise che forse davvero non lo era stata. Cose che capitano in guerra, si disse. Lui non aveva partecipato all’azione, gliela avevano raccontata più tardi i compagni che ora, come loro, erano costretti alla fuga.
Aveva sentito diverse versioni, discordanti tra loro. Qualcuno diceva che Valerio, il giorno prima quando era sceso in paese per le provviste, non aveva preso i dovuti accorgimenti e si era fatto notare troppo, forse seguire. Qualche altro era arrivato a dire che era stato proprio lui a indicare ai loro nemici la strada per arrivare al rifugio dove erano nascosti costringendoli a fuggire, e lo aveva apertamente accusato, tanto da far intervenire Lupo a metter pace e sedare la rissa che ne era nata. Alcuni dei compagni non si fidavano di questo Valerio, giunto nel loro gruppo poco tempo prima e che nessuno conosceva. Era giovane, classe ’27, senza nessuna esperienza militare, e forse era questo che rendeva diffidente la maggior parte del gruppo, quasi tutti reduci del regio esercito con anni di servizio all’attivo.
“Ad ogni modo”, pensò Mario, “stupido o traditore non cambia il fatto di dover scappare”.
Gli piaceva questo suo aspetto di prendere le cose per come venivano, un senso di fatalità innato, per quello che ne poteva sapere. Finora gli era andata bene ragionando così, non vedeva motivo per doverla pensare diversamente. Qualcuno del gruppo che aveva studiato più di altri gli aveva affibbiato il nomignolo di Magna Grecia, sia per la sua provenienza meridionale che per quel suo modo di filosofeggiare. Gli andava bene, il nomignolo, anche se non sapeva bene cosa intendessero, però sapeva che magno significava grande e la Grecia era la Grecia, per cui non ci vedeva niente di male se lo chiamavano così.
Prima che le due ore scadessero Valerio era già sveglio. Aveva dormito poco e male, quasi niente, rigirandosi spesso sulla terra umida, sempre col fucile ben stretto fra le mani. Quando chiese il cambio a Mario i suoi occhi erano un po’ gonfi di sonno insoddisfatto e la sua voce incrinata da una malcelata tensione.
Mario gli disse che finora era tutto tranquillo e subito si sdraiò supino cercando di dormire.
Pensò, prima di prendere sonno, a una situazione simile di molti anni prima, quando il più giovane era lui e il suo compagno di allora stette sveglio tutta la notte. Attribuì quella scelta a mancanza di fiducia e per questo, ora, anche se la fiducia non era totale, si impose di chiudere gli occhi e dormire.
Quando li riaprì un fucile era a un palmo dal suo naso e attorno a lui si agitavano figure scure, molte.
“Cazzo” esclamò facendo un movimento per tirarsi su.
L’uomo che gli puntava il fucile fece il gesto eloquente di prendere la mira e sibilò piano, sorridendo, “Shhh!”.
Mario cercò di guardarsi attorno. Vide almeno una ventina di figure con la divisa scura transitare lungo il sentiero e Valerio parlare con uno di loro. Non sentiva cosa si stessero dicendo, ma quello che sembrava comandare la pattuglia puntava il dito verso la sua direzione, mentre Valerio sembrava stesse protestando. La discussione durò poco e al termine Valerio si diresse verso Mario, mentre il comandante faceva un gesto verso l’uomo che lo teneva sotto mira. Questi prima di voltarsi indietreggiò di un paio di passi, sempre tenendo l’arma puntata, e l’abbassò solo quando Valerio lo ebbe raggiunto per dargli il cambio. A Mario parve di vedere nuovamente un sorriso, tronfio, sul volto dell’uomo col fucile mentre incrociava lo sguardo del ragazzo che arrivava a passi lunghi.
Il gruppo si allontanò in fretta lungo il sentiero, piuttosto silenzioso. Mario si mise a sedere incrociando le gambe, Valerio gli si pose davanti, fucile in mano.
Il vecchio fece per prendere una sigaretta portando la mano verso il taschino della giacca, ma si bloccò nel momento in cui il ragazzo gli puntò l’arma contro.
“Vuoi?” chiese Mario con un mezzo sorriso.
“Ti ho già detto che non fumo” rispose seccato Valerio.
L’uomo si portò la cicca alle labbra e cercò più del dovuto con le dita nel fondo della tasca. “Già”, disse, “Non fumi, e non bevi, e parli sempre poco”. Sfregò il fiammifero senza preoccuparsi della luce che avrebbe fatto la fiamma e tirò poi una boccata lunga dalla sigaretta accesa, senza aspirare il fumo che uscì dalla bocca corposo e grigio.
“Quanto ti hanno pagato?” chiese.
“Non è per i soldi” rispose pronto Valerio.
“No? E per cosa, per avere salva la vita?” Mario teneva le gambe incrociate e le braccia attorno alle ginocchia, stava seduto mantenendosi in equilibrio in questo modo e tirava dalla sigaretta a intervalli regolari. Ogni volta inspirava a fondo e rilasciava il fumo quasi subito. Gli piaceva vedere il contrasto della luce notturna su quel rivolo grigio che gli usciva dalla bocca.
Mentre aspettava una risposta che non arrivava notò il suo mitra a qualche metro di distanza, poco più in basso. Si chiese se fosse stato Valerio a buttarlo lì o se erano stati invece quelli che li braccavano. Pensò che non sarebbe mai potuto arrivare all’arma, che era stato ingenuo per non dire stupido a fidarsi di quello strano ragazzo, che avevano avuto ragione alcuni dei suoi compagni. Che era inutile pensare a quelle cose.
Valerio non rispondeva e Mario provò a incalzarlo.
“Io invece pensò che ti abbiano pagato. Preferisco pensare che ti abbiano pagato. Se uno si vende per soldi lo capisco, se lo fa per paura è solo un vigliacco!” La sua voce andò indurendosi mentre diceva la frase e l'ultima parola arrivò dritta dove voleva arrivare, Valerio infatti reagì di scatto: “Non sono un vigliacco!”. Lo disse a voce alta, portandosi il fucile alla spalla, puntandolo dritto verso gli occhi di Mario. Questi tirò l’ultima boccata e spense la cicca contro una pietra. Il fucile di Valerio sembrava non disturbarlo affatto e l’uomo continuava a muoversi tranquillo, come sempre.
Anche quando udirono l’eco di uno sparo arrivare da poco più a monte l’uomo non si scompose e mantenne la posizione seduta con le braccia a reggere le gambe. Valerio si voltò di scatto a guardare nella direzione da cui era arrivato il suono e lo calcolò molto vicino. Altri spari seguirono il primo e in un attimo la valle fu inondata dell’eco di uno scontro che stava avvenendo a poche centinaia di metri da loro. Si udivano anche voci indistinte e a volte urla più forti.
Valerio era confuso, era trascorso troppo poco tempo da quando la colonna degli inseguitori si era allontanata e non era possibile che gli spari venissero dal rifugio a monte, a meno che…. Il pensiero lo fece girare verso Mario e fargli dire col tono di chi ha appena avuto una rivelazione “Non sono andati al rifugio. Sono rimasti nel bosco”.
“Così pare” disse Mario.
Restarono a guardarsi per qualche secondo, poi il vecchio mise una mano nella tasca della giacca, la tirò fuori stringendo una manciata di proiettili calibro 6,5 mm.
Valerio sussultò, forse cominciando a capire, guardò il fucile che stringeva e poi la mano di Mario. Tirò il grilletto senza tensione, già conoscendo il suono che ne sarebbe uscito, di percussore che scarica la sua forza a vuoto, un suono secco di metallo contro metallo ma senza l’esplosione e il contraccolpo che avrebbero dovuto seguire quel rumore di meccanismo.
Mario approfittò di quell’attimo di sbandamento per tirarsi in piedi, in un modo veloce per un uomo della sua età che lo stupì e rincuorò allo stesso tempo. Mentre strappava via l’arma dalle mani di Valerio pensò anche a come fosse strano che in un momento come quello, di tensione e velocità, gli venissero pensieri tanto assurdi.
Fu rapido nel ricaricare il fucile, un colpo solo, nel portarsi l’arma in posizione ideale per sparare come gli avevano insegnato tanti anni prima, calcio contro la spalla, polso fermo e testa leggermente reclinata nel prendere la mira.
Il ragazzo era ora a una decina di metri da lui e correva in cerca di riparo verso il primo gruppo di alberi poco distante. Non aveva urlato cose, come si sarebbe aspettato Mario, non aveva cercato pietà a parole o nei gesti. Si era solo voltato e messo a correre più in fretta che poteva.
Mentre tirava a sé il grilletto Mario non pensò a nulla, e quando uno sbuffo di fumo sembrò uscire dalla testa del ragazzo già conosceva cosa avrebbe fatto seguito: la schiena che si inarca, le gambe che cedono, il corpo che cade, la faccia per terra e il sangue, lento, a macchiare di scuro la terra e scivolare via.
Raccolse le sue cose in fretta, lo zaino, il mitra, e si avviò verso il sentiero da cui ancora provenivano i colpi della sparatoria.
Passando accanto al corpo di Valerio gli gettò solo uno sguardo, di sfuggita. Avrebbe voluto chiedergli quale fosse stato il motivo di quel tradimento, ma si stupì nell’accorgersi che in fondo non gli importava poi molto saperlo. Mentre si lasciava alle spalle quegli ultimi minuti di vita pensò a cosa era cambiato in lui così tanto. L’eco della battaglia poco lontana lo distolse da quel pensiero e se ne dispiacque, perché gli sembrava un pensiero profondo e degno di essere seguito, ma si sforzò, di non darlo a vedere.

venerdì 6 agosto 2010

Minoranza

Lo so, sbaglio, perchè non è che se uno diventa troppo commerciale significa che non debba più piacere, ma cosa volete, io son fatto così, che quando un artista ha troppo successo smetto di seguirlo e poco mi frega di cosa faccia dopo: io resto legato a quelle loro prime cose e a tutti i ricordi annessi e connessi, su di loro certo ma più su di me. Successe la stessa cosa con Vasco che, per dire, fino allo spartiacque di Bollicine (1983) mi piaciucchiava pure un pochetto (mai amato, per la verità), poi divenne simbolo e modello di tutti i tamarri del mio paese e allora no, cavoli, Vasco no, ma l'ho detto, sono io che sbaglio e forse sbagliai pure con i Litfiba, persi di vista dopo Litfiba 3 (1988) e mai più voluti sentire tranne qualche traccia qua e là, a caso, qualcuna neanche male ma niente a che vedere con ciò che a me ricordavano.
Beh, a pensarci non è che ne abbia scaricati poi tanti dalla mia personale classifica, che quelli che piacciono a me non diventano mai abbastanza famosi; sì certo Pino Daniele, ma lui ci ho messo un po' a smettere di comprarlo a scatola chiusa, perchè fino a Schizzechea With Love (1988) non ha sbagliato un disco che fosse uno, poi però mi frega con Mascalzone Latino dell'anno dopo e vabbeh passa, ma non passa più con Un Uomo in Blues del '91 che fa il paio con Abbi Dubbi di Bennato (Edoardo, che Eugenio è un'altra cosa) in quanto a rimpianto dei soldi spesi: ciao Pino che ha perso voce e verve ma ha acquistato maree di fan, e l'unica eccezione gliela concedo al concerto di Torino nel 1996 ma solo perchè c'è Jimmy Earl al basso, dopodichè più nulla. Comunque si diceva che quelli che piacciono a me non diventano mai abbastanza famosi e seguiti (con l'unica eccezione dei Depeche Mode), per cui è raro che io mi ritrovi in un megaconcerto, sono al massimo da Palazzetto ma anche lì ultimamente non è che ci vada più tanto spesso, che poi alla fine è la calca che mi disturba e l'unica volta che mi sforzo di superare la fobia è per i Police qua a Torino tre anni fa, ma cavoli, lì dovevo esserci, non puoi avere tutti i dischi, rimpiangerli per anni e poi perderti l'unica occasione per vederli dal vivo, oltretutto in casa!
E quindi lo so che sono io che son così e che a volte merita la pena andare ai megaraduni, ma degli U2, che pure suoneranno stasera sempre qua in casa sul loro megapalco che tiene mezzo stadio (una robetta sobria), mi frega un po' una mazza, che per me hanno smesso di esistere nel 1987 con The Joshua Tree per darsi alle americanate e alle folle adoranti di cui io, ma lo so che è colpa mia e lo so che sbaglio, non faccio parte.
In minoranza. Pure qui.

U2 - The Unforgettable Fire

giovedì 5 agosto 2010

Le stelle sono tante (milioni di milioni)

Fa persino tenerezza, Enrico Letta in diretta televisiva, quando si precipita a correggere chi parlando del suo partito usa la sola definizione "sinistra" rimarcando "centrosinistra!", come pure Bersani e tutti i suoi, quando pur facendo opposizione (debole, confusa, ma pur sempre opposizione) se la vedono rubare dalla stessa maggioranza, con l'ala di Fini nelle vesti di grandi oppositori, e dai quattro gatti sopravvalutati di Casini e Rutelli.
Fanno tenerezza, perchè gli unici a non aver capito che il vero errore del loro Partito Democratico è stato abbandonare quel pezzetto finale (della Sinistra), sia come nome che come idee, base di tutte le loro contraddizioni, motivo principale per cui non hanno fatto breccia (e mai la faranno) nella maggioranza degli elettori. Sì, forse potrà capitare, che possano vincere prossime future elezioni, ma sarà un caso, un accidente del destino, più colpa degli avversari che merito loro, più per disperazione che per convincimento.
Continuano a guardare al centro. Anni di batoste e loro continuano a guardare al centro, a furia di guardare al centro e non trovarci nulla sono arrivati dall'altra parte, a Fini, alla destra, liberale quanto cacchio ti pare ma di destra, che per carità, su alcuni argomenti dice cose largamente condivisibili (legalità, questione morale) ma sono cose che non andrebbero neanche discusse, invece la situazione è talmente degradata da diventare argomento prioritario, trascinata talmente in basso che essere onesti è l'eccezione e non più la regola, basilare, del vivere politico e civile.
Non hanno capito che in Italia è scomparsa la Sinistra come entità politica ma non la voglia di Sinistra, l'idea di Sinistra; che questa ha preso strade alternative per mancanza di gente che riesca a ridargliela; che ci sono milioni di persone che non aspettano altro che vengano pronunciate poche semplici chiare parole: "conflitto di interessi", "diritti dei lavoratori", "nucleare no", "acqua pubblica". Sarebbero i mantra con cui porterebbero dalla loro milioni di indecisi, quegli orfani della sinistra morta e sepolta alle elezioni di due anni fa, che pure erano il suo naturale bacino elettorale. Quelli che alle prossime elezioni voteranno in massa il Movimento a Cinque Stelle di Grillo. Vogliamo scommettere?