lunedì 17 dicembre 2012

Che traslocare è nel mio tema natale

 

Ok, direi che il momento è arrivato. Lascio questo spazio e emigro, in un altro posto.
Dovrei dire in questo caso che le Cronache Tauriniche muoiono, ma mi sembra un tantino esagerato. Alla fine penso che niente muoia mai davvero, e c'è poi il fatto che a questo spazio mi ci ero affezionato.....
Non sono facile agli abbandoni, io.
E però di "taurinico" qua non è rimasto più nulla. Io non vivo più a Torino  da mesi, e dubito tornerò a farlo (anche se mi sono abituato a mai dire mai, dovrei averci un motivo più valido dell'altra volta), per cui continuare ad utilizzare nome e simboli di qualcosa che non mi appartiene più non ha senso. Certo, potevo modificare solo il template, o solo il nome, o tutti e due, ma alla fine penso sia meglio fare così: lasciarlo a futura memoria per chi vorrà passarci e tornarci io stesso magari, ogni tanto.
Di là ho già portato quasi tutto, ma come in ogni trasloco qualcosa si perde, e non me ne voglia chi non si ritrova. Comunque, chi vorrà venire a trovarmi sarà come al solito il benvenuto.
Questo il nuovo indirizzo: http://onlyfluff.blogspot.it/.
Arrivederci.

sabato 15 dicembre 2012

Le stesse cose


Poi hai quelle giornate in cui ti sei alzato più scontroso del solito, perché quella sensazione di fretta che hai addosso di realizzare cose e situazioni va a cozzare con la consapevolezza che ogni cosa ha il suo tempo, ed è questo alla fine quello che fai da tutta una vita, aspettare il tempo giusto e muoversi intanto, e lo sai. Ma attendere muovendosi è faccenda che richiede calma interiore, un atteggiamento zen che non è che sia proprio nella tua cultura di occidentale decadente alle prese con questioni molto pratiche e contemporaneamente con questioni che molto hanno dell'esistenziale, ché la tua natura purtroppo è quella che è, e abbiamo già detto che da se stessi non si scappa, mai. Ti sforzi, ma non sempre ce l'hai, la calma interiore. A volte, a sentire sempre le stesse cazzate, quella calma relativa che ti sei cucito addosso proprio ti scappa, e ti viene un po' da sbroccare, naturalmente. Per cui, parlando di crisi e di lavori che non ci sono e di gente che se ne approfitta per sfruttarti, all'ennesimo "tanto i tempi sono così" (utile scusa per rimanersene fermi), rafforzato dalla domanda retorica "ma che bisogna fare?" (retorica perché di fare qualcosa uno manco ci pensa) e dalla affermazione che "rifiutare compromessi bisognerebbe farlo tutti" (il che lascia intendere che alla fine non lo fa nessuno e tantomeno la bocca da cui esce la frase), ripensi agli ultimi tuoi avvenimenti, in cui hai rifiutato di sottostare ancora a logiche di sfruttamento dove in cambio di uno stipendio che a momenti manco ti permette di arrivare a fine mese ti richiedono corpo anima e cervello. E ti vedi fuori dal mondo, perché le scelte che fai tu, per quanto accettate e comprensibili, sono in contrasto con quelle della maggioranza (che mai farebbero le stesse scelte), e ti chiedi dove sta l'errore, se in te o nella maggioranza. Ti rispondi, pure, che l'errore è in te, che non ti senti pecora né cane né tantomeno pastore, e te lo chiedi per un lungo attimo, chi cazzo sei tu, ma la risposta ancora non la sai, e dubito fortemente la troverai mai, almeno, non frequentando pecore.
Ma poi ci pensi, ti rivedi indietro negli anni e ti accorgi -porca troia- che son sempre le stesse cose.

Hot Chip - Over And Over


martedì 11 dicembre 2012

Non gioco più

 
Sono stato "via" per un po', preso completamente dai fattacci miei, e ho seguito distrattamente le vicende italiote degli ultimi mesi, per cui non sono molto aggiornato sulle attuali questioni politiche. Non mi pare sia cambiato granché, e le preoccupazioni di un anno fa si sono puntualmente avverate, comunque non intendo riprendere a parlare di comunismi o mondi ideali, di cosa si dovrebbe o non si dovrebbe fare, a lanciare spunti minimi di riflessione, a indignarmi per come vanno le cose, a cercare di lottare nel mio piccolo e secondo i miei mezzi. Ve lo dico, in tutta franchezza: è tempo perso! E' inutile. Di più, è dannoso per la propria salute. Lotto sì, e con le ultime mie scelte sto continuando a farlo, ma solo ed esclusivamente per me.
Onestamente, pensare che qualcosa possa cambiare dal basso è bello, sì, ma difficile da realizzare in maniera democratica. Pensare che con un voto si possa orientare una politica è da ingenui. Pensare che ci possa essere qualcosa di diverso dal solito schema padrone/sotto è da visionari idealisti.
Potrei perdere un po' di tempo a motivare quanto sto dicendo, ma non ne ho proprio voglia, e poi le cose sono sotto gli occhi di tutti, basta volerle vedere.
Dico solo una cosa. Ci chiameranno fra poco nuovamente a mettere una croce per legittimare qualcuno messo lì a prenderci per il sedere, e lo faranno facendocelo fare con quella legge porcata che a parole nessuno vuole, ma che nei fatti fa comodo a tutti.
Beh, lo farete voi. Per conto mio me ne starò a guardare, e lascerò che la mia nuova tessera elettorale resti immacolata, e non è solo perché davvero non saprei chi votare, ma perché è inutile. Perché i giochi sono già decisi. Perché tutto è già programmato (vittoria di quella sottospecie di sinistra con Monti probabile premier, e se non è lui poco cambia, a portare avanti la svendita di ogni risorsa di questo paese; Berlusconi ancora in parlamento, che poi è la sola cosa che gli freghi, ancora lì a spartirsi fette di torta; il democraticissimo M5S a racimolare e tenere buoni gli scontenti).
L'unica libertà che ancora ci concedono, l'unica che forse ancora abbiamo, è quella di non stare al loro gioco, scegliere di non essere più presi per i fondelli. Per cui lasciamo che si votino da loro. Importa poco che non servirebbe, che non conta il numero dei votanti, che qualcuno governerebbe lo stesso: lo so anch'io, ma una astensione al settanta/ottanta per cento qualche domanda la porrebbe eccome, smuoverebbe qualcosa. Renderebbe forse evidente la dittatura democratica in atto, se non si tenesse conto di chi non ha voluto votare.
Penso si possa essere schiavi, e lo siamo: nessun problema, basta prenderne coscienza. Essere servi però è peggio.

mercoledì 5 dicembre 2012

5 dicembre 2012


Annata strana.
Abbiamo azzerato tutto, quest'anno. Con o senza Maya, il lavoro è già stato fatto.
Lasciato andare situazioni, luoghi, lavori.
Amori.
Recuperato situazioni, altri luoghi, amici vecchi e nuovi, dispersi, qua sulla Terra.
Una fatica necessaria. Ricreare empatie, smuovere energie, rimettere in circolo movimenti.
Annata strana.
Da ricordare.
Come la giornata di oggi.

LCD Soundsystem - All My Friends


giovedì 29 novembre 2012

Che 'a vita è tant' amara



La cosa migliore è vedere Arbore a 1:45 trattenere a stento le risate.

mercoledì 28 novembre 2012

Mr. Sandman

 
Una volta chiesero a Neil Gaiman di raccontare in meno di venticinque parole la storia di Sandman, il personaggio che lo ha portato a diventare una vera e propria icona nell'ambiente fumettaro. Dopo averci pensato su un attimo rispose: Il Signore dei Sogni impara che bisogna cambiare o morire e prende una decisione.
Chi ha letto quei favolosi dieci volumi che compongono la saga di Sogno degli Eterni sa che alla fine farà entrambe le cose. Cambierà, perché nella vita è necessario il cambiamento, ma ogni cambiamento presuppone la morte di ciò che era, per lasciar spazio a ciò che ha da essere. In pratica non c'è scelta fra cambiare o morire, perché cambiare è morire, se si vuole continuare a vivere; non farlo equivale ad essere già morti, perché si nega la vita che dal cambiamento deriva.
Dico tutto questo per due motivi. Il primo perché per necessità o per scelta mi sono ritrovato a morire già enne volte, e questo fa di me un essere più vivo di quanto non appaia, bisogna solo mettersi d'accordo sul significato da dare alla parola vita. Il secondo per dare un calcio in culo a quanti, e sono tanti, ritengono il fumetto un'arte minore.
Leggetevi Sandman, e poi ne parliamo.

martedì 27 novembre 2012

C'erano una volta

 
Ecco, poi uno risente una amica di vecchissima data e questa ti smuove tutta una serie di collegamenti che partono da tutte le birre bevute insieme in un certo locale ormai defunto e sempre rimpianto qua della zona e ti portano non sai come a riascoltare tutta una serie di robe che in quel posto di certo hanno suonato più e più volte in anni in cui noi si faceva ancora le medie. Le metti in sequenza (1-2-3-4-5-6) e ti accorgi che tutto stasera sa di 1981 o giù di lì.

Tom Tom Club - Wordy Rappinghood


domenica 18 novembre 2012

La stagione delle nebbie


Ne è passato di tempo. Oddio, non tantissimo. Sai, il tempo è relativo, dipende da come lo vivi. Mesi che sembrano anni, giorni che sembrano mesi... E viceversa. A me capita spesso il contrario, ore come attimi, mesi come giorni... Penso dipenda tutto da quanto ricordo si ha di sé, nel senso quanto si sia in contatto con la parte più intima di sé. Il tempo in questo caso cambia forma. 
Dovrei dirvi di come ho trascorso gli ultimi tempi, ma non c'è molto da dire. Non ho fatto granché. Ho visitato me stesso. Lunghi, interminabili momenti con me, con quella parte interiore che spesso mettiamo da parte. Quasi sempre mettiamo da parte. Poi, dall'esterno, sono successe cose, ma sono successe tutte cose, me ne rendo conto, che in qualche maniera erano state da me richiamate.
Me ne accorgo, rileggendo i post scritti lo scorso inverno (uno su tutti), di come fossi già proiettato in un altro contesto senza avere il coraggio di abbandonare ciò che avevo.
Non è mai semplice. Farlo volontariamente, intendo. Ci si aggrappa alle cose, alle situazioni, alle persone, anche se non ti rendono veramente felice, ma dentro hai quella cosa che va da sé, e ti trascina pure se non lo sai, se non la vuoi vedere. E allora a un certo punto tutto prende la direzione che inconsciamente vuoi, e ti ritrovi allo stesso risultato, vivere un altro contesto, ma arrivandoci attraverso un percorso doloroso. Sai, il dolore è una gran cosa, mantiene vivi, ma certo è meglio star bene che star male, e se stai male l'unica è sopportare, volendo nel frattempo star bene. E' come averci una qualche malattia, non la avresti voluta, l'avresti evitata, ma quando ormai ce l'hai l'unica è curarsela. Non si scappa da ciò. Non si scappa da sé.
Per cui non c'è da preoccuparsi, tutto va nella direzione desiderata, quello star bene che tutti cercano. Arrivarci, sono destini. C'è chi sta bene senza dover faticare, c'è chi invece se la deve sudare. Da queste parti è chiaro che è valida solo la seconda opzione, ma va bene, si può sopportare. Quindi lasciarsi andare, seguire il proprio essere quale che sia. Lasciar andare il superfluo e ciò che ti fa male.
Conosco una persona che lo ha fatto, lo sta facendo. E' dura rendersi conto di essere stato l'elemento superfluo, e di più di aver fatto star male. Rendersi conto di cercare le stesse identiche cose, ma di avere due nature diverse, quindi due modi diversi di arrivarci. Che quella persona è fuori dalla tua vita, o meglio, tu sei fuori dalla sua. Non vorresti, ma è così, anche se sai che hai ancora molto da dare, ma forse non le cose giuste, o non quelle richieste. O forse semplicemente non te ne accorgi, ma non riesci a dare. Non è facile rendere felice qualcuno. Prima di tutto se stessi.
Ecco, io qui non vorrei dire nulla, ma dovrei essere un altro e non lo sono. Rispetto le scelte altrui, anche quando vanno a mio danno, pure se a volte faccio fatica, ma quella persona mi manca davvero tanto. Abbiamo limiti e limitazioni però, e bisogna tenerne conto. Ma mi guardo dentro, e tutto quello che ho detto ultimamente  è vero, e non è per testardaggine, di questo sono sicuro.

Daniele Silvestri - Testardo

lunedì 28 maggio 2012

Stand by

Vedi, poi non è che uno può fare tutto quello che gli pare. Dipende, da un sacco di cose. Ad esempio puoi trovarti invischiato in una roba che ha bisogno di tempo per realizzarsi, e alla fine il succo è tutto lì, il tempo. Attimi su attimi su attimi di attesa, snervante, dei momenti veramente necessari, quelli per cui vale la pena vivere, e il resto è solo fuffa e giri a vuoto. In mezzo fai con quello che hai. In questo momento non è che ho poi molto, giusto un letto e un piatto pronto, generosamente offerti da chi mi vuol bene, alla fine. Il lavoro, certo, fortuna che c'è. E gli amici, anche loro, fortuna che ci sono. Ti ci attacchi, alle cose che hai, e scopri che alla fine non hai bisogno di molto, ma non è una vera scoperta, è solo un darsi ragione ancora una volta.
Questa esistenza da rifugiato sta volgendo al termine, e le cose da fare si accumulano: una nuova casa da considerare propria; andarsi a riprendere ciò che è rimasto a far da peso per altri; riprendere contatto con quella che è stata la mia zona, per lungo tempo. Riallacciare rapporti, recuperare interessi messi da parte, perché i vuoti erano riempiti da una cosa sola, e tanto bastava, ed ero a pensarci felice che bastasse, in attesa di riaprirmi al mondo dopo tanta chiusura. Tornerò, sto già tornando, a fare cose, pure quelle che non mi interessano per davvero (tirare con l'arco mi interessa davvero? giocare a scacchi? Va beh, provare non fa male). A vedere gente, pure quelle che non interessano davvero: tocca farlo, in attesa di chi davvero interesserà. Poi altre cose, più pratiche: recuperare un pc per la nuova casa, per poter riprendere a commerciare in fumetti. E quel progetto di diorama che ho in una scatola da sette anni (problemi di spazio: non sapevo dove mettermi a farlo), forse è la volta che lo metto su. Ecco, alla fine finirò per fare di nuovo cose, vedere di nuovo gente, tutte quelle cose che ho fatto in anni passati, tutte quelle cose che alla fine fanno tutti. E' che adesso ho anch'io un vuoto enorme da riempire, in fondo.

The Fugees - Ready Or Not

venerdì 18 maggio 2012

Domani prendo casa

E dunque domani prendo casa. Devo dirlo, non è una cosa che volevo, ma tocca vivere ciò che la vita porta, e a quanto pare porta a questo. Fatalismo, mi dicono, ma qui non c'è nessuna fatalità. Scelte, piuttosto, e non tutte mie: il destino in questa storia c'entra una mazza. Il destino è quella roba che ti mette di fronte a un bivio, poi sta a te prendere una direzione, ma la scelta è solo tua, con conseguenze un po' per tutti. Io avrei fatto tutt'altro. Io avrei continuato a crederci, perché mollare tutto in una storia come questa equivale ad essere sconfitti, ad ammettere che negli ultimi anni si è inseguito cazzate, creduto in cazzate o nel migliore dei casi in illusioni, roba che non esiste. Ma si da il caso che io so, che quella roba esiste, ed è l'unica, vera, cosa che conta. Mi dicono che finisce, ma sono balle. In realtà la sposti solo da un'altra parte, verso chi o cosa pensi possa darti di più. Non è questo il caso, ma paura ed egoismo la fanno da padrone, spesso. Ma non sono cose mie. Non c'è paura, e non c'è egoismo in me (o per lo meno spero ce ne sia poco). In questo momento solo una casa da prendere e una "roba" dentro sconfinata che non trova più sbocco. E fa male.

Neffa e I messaggeri della dopa - Aspettando il sole

lunedì 14 maggio 2012

Caro diario

Questo blog avrebbe bisogno di un nuovo nome. Di taurinico dopo le ultime vicende c'è rimasto ben poco, giusto il ricordo. Un po' amaro al momento, ma il tempo porta quiete e addolcisce tutto: il sapore cambierà, e presto o tardi dipende solo da noi. Si impara, sembrerebbe.
In questi giorni ho visto case, un bel po'. Seguo l'istinto, perché ancora non è chiaro cosa vorrei davvero, per cui mi accontento per ora di trovare un posto il più possibile confortevole, da poter chiamare casa. Forse è saltato fuori, sono indeciso, vedremo. E' che sono fisicamente esausto, mentalmente scarico, emotivamente ancora scosso, seppure in fase avanzata di assestamento, e quindi non è facile. Ad ogni modo se mi decido per l'ultimo appartamento visitato il gioco dell'oca sarebbe completo, un intero giro di giostra durato undici anni: è al civico successivo al mio primo appartamento da solo! In quella via c'ero stato bene, sette anni circa, potrebbe essere una buona cosa. Spero. Era stato l'inizio di tante cose, non tutte buone, ma la vita è così: a volte scegli tu, a volte scelgono altri per te, a volte proprio non hai scelta. Non saprei in quale casistica rientrano gli ultimi avvenimenti, di certo non nel primo, ma non ne sono poi così certo. Comunque un posto devo prenderlo, per smettere col periodo da profugo con una valigia di vestiti appresso e niente più. La parte più difficile sta però nello smettere di..... vabbeh, lasciamo stare.
Cerco di tenermi concentrato sul futuro prossimo. Molto prossimo, non riesco ancora a proiettarmi oltre il prossimo mese. Ieri mio fratello mi ha chiesto cosa avrei fatto. "Affitto quell'appartamento e mi ci trasferisco", gli ho risposto. "E poi?" mi ha ancora chiesto. E poi. E poi, onestamente, che cazzo ne so? Vivrò, penso.

giovedì 10 maggio 2012

Il gioco dell'oca

Passeggiavo ieri sera per le vie e le piazze del piccolo posto dove ho trovato rifugio, ma piccolo è relativo, dipende tutto da dove arrivi. Sto riscoprendo il piacere di girare tranquillo, senza correre, senza dovermi guardare attorno continuamente, senza farmi travolgere dalle centinaia di volti che mi vengono incontro e che per natura ed abitudine guardavo, perché avrebbe potuto essere qualcuno che conosci, da salutare. In provincia è così, incroci la gente e la saluti, magari ci scambi due parole, anche inutili, ma necessarie. A Torino non accadeva quasi mai. A Torino la gente tira dritto, ma non è questione di Torino, anzi, Torino è una bella città, uno dei posti migliori dove stare, ma è che in città è così: un buon posto dove nascondersi facendo finta di stare in mezzo alla gente.
Sto riscoprendo il piacere di dormire senza rumori d'auto e traffico e sirene, di aprire le finestre e respirare aria (finalmente), di non vedere gente far la fila ai cassonetti d'immondizia alla ricerca di qualcosa da monetizzare, di stare seduto al bar senza che qualcuno ti chieda spiccioli o ti venda rose, qualcuno da non guardare in faccia, sia per levartelo di torno che per non sentirti in colpa. Piccole cose, per me importanti, che mi ripagano in piccolissima parte di ciò che ho perduto che è tanto, tantissimo.
Ieri sera poi ho reincrociato vecchi amici nella solita piazza di sempre, due parole, un saluto. La domanda, ma che ci fai qua? Faccio Neffa, ho risposto, è il ritorno del guaglione sulla piazza. E poi, dopo esserci messi al corrente delle ultime vicende di tutti, tutte più o meno simili, conclusioni tutte più o meno le stesse, ce lo siamo detti, cavoli, sembra il gioco dell'oca: tira i dadi e vai avanti, torna al punto di partenza, paga pegno e penitenza. Nel tentativo di giungere al traguardo.

martedì 8 maggio 2012

Priorità

Ho molte cose da fare, e un po' di confusione in testa. Non è ancora ben chiaro ciò che voglio. Non è semplice essere obbligati a rivedere le proprie priorità (sì, ok, d'accordo, la priorità devi essere te stesso, ma c'è un caso, un solo caso, in cui la priorità deve essere altro, l'altro, altrimenti non funziona). Ridefinirle, partendo da poco e da vicino. Quello che ho, l'ho elencate ieri. Ripartire da lì, per ora è l'unica. Non è che mi spaventi, la cosa (il futuro non è cosa che mi spaventi, magari preoccupa, mi spinge alla cautela, ma spaventare proprio no). Più che altro mi stanca, molto, e ho dato fondo alle mie energie già scarse qualche settimana fa, in una domenica trascorsa a ricostruirmi per andare avanti, per potermi riaprire dopo tanta chiusura. Tempo sprecato, a pensarci (più che altro per le incomprensioni che ha causato), e non so neanche se c'ero riuscito: non c'è stato il tempo per provarlo.
Comunque, devo trovare una nuova casa, possibilmente qualcosa in cui star bene come la prima volta in cui abitai da solo. Certo allora lo feci senza fretta, oggi è un pochino diverso, ma non si può avere tutto. E poi la parte più difficile: imparare da tutto questo e metterlo in pratica. Non è detto che ci riesca. Modificare il proprio essere non è semplice, accettare ciò che la tua natura rifiuta è complicato. Ma è la mia parte in questa storia, e vediamo di farla.

P.S.
Ho chiuso i commenti, ma non vi offendete, ho i miei motivi. Chi vuole può scrivermi via mail.

lunedì 7 maggio 2012

Ricomincio da tre

Sono molto stanco. Non è facile. Non per me. O forse sì, è facilissimo, basterebbe riempirsi il quotidiano di cose da fare, pure quelle che non interessano, di gente da vedere, pure quelli che non interessano. Fare cose, vedere gente, non pensare, non ascoltarsi, scappare da sè. Parlare, di sciocchezze, di stronzate, di tutto tranne dell'unica cosa che preme. Identificarsi, in qualche idiozia, una qualunque, qualcosa che ti faccia credere di avere uno scopo, di avere una identità, che riempia i vuoti dell'anima. Sarebbe una soluzione. Ma non per me. Non è che puoi di colpo andare contro la tua natura. La mia natura, si scontra con quella altrui, mal si adatta, crea equivoci: non mi sono mai saputo vendere. Colpa mia. La gente scambia i miei stati d'animo per mal di vivere, non è così. Mai saputo farlo capire. "Ottimismo, ottimismo ci vuole", come se mancasse: cosa c'è di più ottimista nel pensare che in fondo va sempre tutto bene? Le difficoltà non mi hanno mai travolto, ma anche non me le sono mai nascoste. Le ho vissute. "Bisogna ridere, divertirsi, stare bene, stare bene, stare bene": ma vaffanculo! Diffidate di chi vorrebbe ridere sempre. Commetto errori, sempre gli stessi. Prendo come punto fermo una cosa che poi viene sempre disattesa dai fatti. Poggio tutto su terra fragile, che prima o poi cede e mi inghiotte. Ma è l'ultima volta. Ne prendo atto: quella cosa non esiste. Almeno, non esiste per me: non è nel mio cammino, inutile insistere. Quindi ricominciare, ancora una volta. Torno a casa, torno ai pochi che tengono a me senza chiedermi nulla in cambio, torno a me. Ricomincio, da tre.

mercoledì 2 maggio 2012

Vortice

Ragazzi, pensatela come volete, ma il destino è roba che esiste, e non ci si sfugge. Puoi cercare di aggirarlo, puoi pensare che finalmente ha smesso di chiederti prove, ma quando la lezione non è imparata è sempre dietro l'angolo, e prima o poi ti presenta il conto. Lascia stare le giustificazioni che uno può avere, sono tutte vere, ma anche non lo fossero state saresti probabilmente arrivato ugualmente al punto, a quel punto, perché è a quel punto che dovevi arrivare, se non hai imparato prima. E in quel momento sono cazzi, ma veramente cazzi, perché uno mica lo sa qual'è la scelta giusta. Rispettare, come adesso, una parola data e lasciar andare, farsi da parte, accettare egoisticamente la fine di qualcosa perché è più facile costruire da altre parti che ricostruire un progetto malandato; oppure seguire la propria natura, testardamente, e continuare a inseguire un ideale in cui ciecamente credi. Difficile dire. La prima costa fatica, e rischi di fare del male se non ci riesci (ed è l'ultima cosa che vuoi); la seconda costa ancora più fatica, per ciò che metti in gioco, e rischi di farti del male (e non è proprio la prima cosa che vuoi, ma sa Dio se non saresti disposto a correre il rischio). Su tutto la consapevolezza e la visione più o meno chiara di ciò che è accaduto, di ciò che è mancato, delle proprie e altrui mancanze, ma anche dei propri e altrui meriti.
Il discorso è a doppio senso, ciò che vale per me vale per gli altri. E' una storia collettiva, o al minimo una storia doppia, ed è un gran casino, perché in questa storia i limiti sono opposti: qualcuno deve imparare a lasciar andare, qualcun altro deve invece imparare a trattenere, ma le posizioni di partenza partono dalla proprie nature e dunque le posizioni oggi sono quelle di sempre, chi dovrebbe lasciar andare trattiene, chi dovrebbe trattenere molla. Un gran casino, in cui tra l'altro ci si ritrova giustamente soli, perché i deus ex machina esistono solo nelle tragedie greche e qui non è proprio il caso di richiederli.
Non conosco la soluzione, ciò che accadrà, o ciò che è giusto, ciò che è sbagliato. In questo momento ho un solo pensiero e un solo desiderio, ma da solo non basta: l'uno da solo non conta nulla, il due è lì per creare il tre, il tre in questa storia è mancato e ora manca la volontà di cercare di ottenerlo. A vedere oggi, per tutto quello che è successo, per come è successo, era quasi scontato che mancasse. Il destino deve realizzarsi, è sempre inpegnato a scorrere le pagine del suo libro e a leggere la storia, a cui lascia aperto il finale affinché noi lo si scriva. Forse in questa storia è già stato scritto, e nulla c'è ancora da aggiungere. O forse c'è ancora tanto da scrivere, e questo era solo il primo capitolo. Impossibile da sapere. Se chiedete a me siamo appena alle pagine iniziali, ma uno da solo non conta nulla, anche se l'ho dimenticato troppo spesso. Certe storie si possono scrivere solo in due.

lunedì 23 aprile 2012

H.F.



Mettiamola così, se proprio dovevo finire come in Alta Fedeltà avrei preferito il ruolo di Jack Black a quello di John Cusack.

giovedì 19 aprile 2012

I piccoli piaceri della vita (2)

Per lavoro ho a che fare con parecchia gente. Troppa gente, e la mia misantropia cresce a dismisura. Non lo faccio apposta, ma io più conosco gente e più me ne allontano, perchè mi rendo conto che la maggioranza di quelli con cui entro in contatto mi sta quasi immediatamente sui coglioni. Ovvio, è colpa mia. Non puoi ragionevolmente pensare di essere l'unico a posto in un mondo di matti: se la normalità è l'essere testa di cazzo, e tu pensi di non esserlo, quello sbagliato, ovviamente, sei tu. E' legge umana, nel senso che gli umani ragionano così: a me pare una stronzata, ma chi sono io per dirlo? E così ogni giorno ho a che fare con variegati tipi che di umano hanno l'aspetto e la voce, ma con qualcosa in più, o in meno, non saprei definire. Per cui sinceramente non so se ho a che fare con dei superuomini o con dei subumani, di conseguenza non so da che parte mi devo mettere io. Oddio, una vaga idea ce l'ho, ma non voglio apparire presuntuoso, quindi evito.
La maggior parte della gente si identifica in qualcosa, uno non lo sa nemmeno di identificarsi in qualcosa, ma lo fa e diventa quella cosa lì, per cui tu mentre gli parli non stai parlando con un tizio provvisto di personalità e capacità di pensiero propria, parli in realtà con la protesi deambulante, non pensante ma telefonante di ciò di cui sono espressione. E' così che va, e ne ho le prove. Ieri ad esempio credevo di parlare al telefono con un collega impiegato (dipendente, stipendiato) seppure della famosa ditta Taldeitali che lavora per l'ancora più famosa ditta Talaltra, con i miei stessi identici problemi di lavoro, ma proprio uguali uguali, e mi sono accorto invece che questo si rivolgeva a me non solo come se la Taldeitali fosse sua e la Talaltra fosse sua signora e padrona, ma come se io fossi il povero pirla schiavetto la cui unica missione nella vita è soddisfare i desiderata suoi, della Taldeitali e soprattutto della Talaltra.
E' stato un vero piacere mandarlo a cagare.

sabato 31 marzo 2012

Storie

Io ci ho in mente delle storie, e a volte mi ci perdo pure dietro a elaborarle. Spesso ci aggiungo elementi su elementi su elementi, così tanti che poi alla fine non mi ci ritrovo più, perché non prendo appunti, ché sono solo esercizi mentali di quando magari stai lavorando e invece hai voglia di divagare e essere da un'altra parte, e averci in mente storie è un buon modo per essere da un'altra parte. Mi dico di solito che "poi stasera a casa la metto giù". Poi la sera a casa invece sono troppo stanco per pensare, e quelle storie restano lì. E' un peccato. Sarebbero belle storie. Beh, almeno, finché le ho solo in testa di sicuro.

venerdì 30 marzo 2012

Una storia semplice

Ve ne racconto una. Lavoravo anni fa, era l'87/88, in una fabbrica piuttosto grande considerata la zona. Particolari auto, circa trecento dipendenti, lavoro su tre turni, quattro settimane di ferie ad agosto e una a fine anno, paga tutto sommato buona, straordinari pagati, maggiorazioni turno più che buoni, tutto a posto. Lavoro pesante, potete immaginare, ma tutto sommato ancora accettabile: possibilità di imparare qualcosa meno che zero, ma se ti accontentavi di fare la scimmietta in mezzo alle macchine utensili senza pensare a cosa facevi poteva andare benissimo. Verso il 93 0 il 94, non ricordo bene, la ditta va in crisi per colpa di alcuni investimenti sbagliati e comincia la trafila per noialtri operai: cassa integrazione, mobilità, insomma quelle cose lì. Per tutto il periodo della cassa integrazione ordinaria, quella dove tutto sommato non ci rimetti molto e che in genere è concordata un tot al mese a rotazione (coi sindacati), il sottoscritto è comandato a lavorare, nonostante avessi fatto presente che essendo ancora a casa con i genitori potevo anche permettermi di guadagnare di meno, e quindi, se volevano, potevano lasciar lavorare chi in teoria ne aveva più bisogno. Non volevano, o non c'era chi ne aveva bisogno, va a sapere.
C'è da dire a questo punto che all'epoca ero abbastanza un rompicoglioni, e non le mandavo a dire sulle cose che non andavano li dentro, tipo aumenti di produzione e robe simili (quindi, se all'epoca si fosse potuto licenziare per motivi finti economici in realtà disciplinari, di certo sarei stato messo alla porta, ma c'è da dire due cose: uno, non avrei pianto; due, me lo sarei meritato). Ma andiamo avanti. Quando scatta la cassa integrazione straordinaria, quella a zero ore dove guadagni parecchio meno, mi lasciano a casa tutto il tempo tranne le due settimane delle feste di natale (che combinazione!), poi vado in mobilità e non rivedo la fabbrica per oltre un anno. Nel frattempo la ditta viene acquistata da una cordata di soci ex impiegati dell' azienda stessa facendo un accordo con i sindacati e una banca locale (dello stesso paese del sindacalista che ci seguiva) dove sono girati i nostri crediti dell'inps e dove noi siamo in pratica obbligati ad aprire un conto. Probabile che fosse tutto legale, non mi interessa e non interessava a nessuno: l'importante all'epoca era salvare il posto di lavoro. Lo salvammo, e dopo un po' cominciarono a richiamare il personale lasciato a casa (tranne quelli prepensionati e quelli che nel frattempo avevano trovato altro). Io, che pure avevo trovato altro da fare, mi intestardii e aspettai il momento di rientrare: in pratica furono obbligati a riprendermi, perché non avrebbero potuto assumere gente nuova se prima non richiamavano tutti i vecchi ancora disponibili.
Prima della "crisi" lavoravo al tornio, due macchine manuali, due operazioni, un particolare finito. Quando rientrai avevano associato alle due macchine una macchina automatica (non scendo in dettagli: chi ha lavorato in fabbrica sa di cosa parlo), quindi quattro operazioni, due particolari finiti. Considerato che la produzione richiesta sulle manuali era stata abbassata di poco, in pratica nello stesso tempo gli facevamo quasi il doppio del lavoro, il tutto senza una lira di aumento.
Siccome ero un rompicazzo feci presente la cosa al responsabile sindacale, chiedendo che siccome stavamo rimettendo in piedi la baracca producendo quasi il doppio di prima allo stesso prezzo, che almeno ci fosse un ritorno per noi in busta paga. Il responsabile sindacale, che nel frattempo aveva fatto carriera passando da operaio a capoturno, quindi teneva sia le riunioni sindacali che quelle dirigenziali (un bel conflitto di interessi in piccolo), mi rispose che "da altre parti era pure peggio", che "ormai il lavoro anche in altre ditte era così", che "se vuoi stare sul mercato bisogna fare così", e "ancora grazie aver salvato il posto". La mia risposta fu restituire la tessera sindacale e cominciare ad attivarmi per andare via da lì.
Poi, vabbeh, è andata come è andata.

martedì 27 marzo 2012

Il Piave mormorava

Ma io poi ho tirato i remi in barca, nell'impossibilità di poterli tirare in testa a qualcuno. Troppi ce ne sarebbero voluti di remi, ché troppa gente lassù nei posti che contano se li sarebbero meritati sul cranio, ma il peggio è che pure in posti che non contano nulla ce ne è in abbondanza se non di più: a lasciar perdere faccio prima, dico io. Li ho tirati in barca un bel momento, qualche mese fa, quando a tanti sembrava stesse per splendere finalmente il sol dell'avvenire (per quegli strani misteri della sinistra italiana) perché il Bandana si era ritirato dalle scene, ma non dalle quinte. A me, come a tanti per fortuna, al di là della ovvia consolazione di essersi almeno levato dalle scatole il gran pagliaccio, era apparso abbastanza chiaro (da subito, ma pure da prima che cascasse: non ci credete?) che la situazione sarebbe molto probabilmente peggiorata. Ma poi, a pensarci bene, mi accorgo che a smettere di remare avevo cominciato già diverso tempo prima: arriva sempre un momento in cui ti rendi conto, solo che non lo sai ancora.
Dunque, dal mio punto di vista, la battaglia è perduta, hanno vinto, loro, le destre, i padroni, e tanti discorsi sono diventati inutili ed è una resa incondizionata la mia: fate quel che volete, cari Monti e Fornero e compagnia tecnica legiferante, ché a impedirvelo non ci penso nemmeno. Perché a questo punto è meglio che tutto vada beatamente in vacca, ma sul serio, e quando non rimarranno che macerie sarà l'occasione per poter ripartire, finalmente, forse, da altre basi.
Volete quindi abolire l'art.18, in maniera che un datore di lavoro può levarsi dalle scatole soggetti scomodi o solo antipatici senza che qualche giudice comunista intervenga a reintegrarlo? Bene, fatelo pure. Se in cambio mi date davvero un paio d'anni di mensilità accomodatevi, che problema c'è? Dubito che le cose stiano davvero così, che in realtà uno poi si ritrovi senza lavoro e senza indennizzo, ma va bene, va bene, nessun problema. Se poi in aggiunta davvero mi levate dalle scatole quelle forme di sfruttamento legalizzato che sono le finte partite iva e gli stage non retribuiti e tutte quelle formule contrattuali che negli anni sono state create anche e soprattutto da governi di centrosinistra, benissimo: accomodatevi, qui davvero vi ringrazio. Visto che la maggioranza delle persone è stata troppo fessa per fare i propri interessi, e dunque negli anni ha accettato e ancora continua ad accettare l'inaccettabile, pensateci voi e levategli finalmente l'alibi del padrone brutto e cattivo che vuole solo sfruttare il proprio dipendente (no, non guardate me, io chi mi ha proposto contratti da fame, due mesi non retribuiti, dieci ore di lavoro al giorno, li ho bellamente mandati a cacare, anche se ero disoccupato). Che tanto voi professori legiferanti lo sapete da tempo che noi dipendenti e loro datori di lavoro siamo sempre più simili e ci avviamo entrambi a mangiare la stessa merda, no?
Fate quel che volete dunque, andate alla sostanza delle cose, ogni tanto tocca farlo, pure se le vie scelte sono così incomprese (si parla tanto di decrescita: dove porta tutta 'sta roba, se non a quello? Certo noi ne immaginavamo di altro tipo, ma tant'è.....). Non vi preoccupate di noialtri, da queste parti non si è capaci di nulla se non badare alla forma, che tanto ci piace. Ci avete portati al Piave; noi ora come fessi scendiamo in trincea e poco importa se ci si lancerà anima e corpo nella difesa del Santo Principio che ormai tutela quattro gatti (è così, pensateci, purtroppo è così), evitando di lottare per altro. Per dire, io sciopero per sciopero, lotta per lotta, a questo punto chiederei, che ne so, tipo minimo quattrocento euro al mese di aumento in busta paga per tutti i lavoratori dipendenti, che sarebbe solo un modo per ripigliarsi una parte di quanto ci hanno rubato. Tanto, bisogna lottare no? E invece lottiamo per difendere il diritto a non essere licenziati per come gli gira (bello, giusto, sacrosanto, sì sì), e continuiamo pure a rimanere sottopagati. Che poi, magari la spuntiamo pure: tranquilli, lo salviamo l'art.18! E' per farne cosa che comincia a sfuggirmi.

lunedì 19 marzo 2012

Belleville

Che poi uno ritorna in ambienti da un pezzo lasciati da parte, si ritrova a respirare la stessa aria di un tempo, a girovagare tra montagne di carta stampata, a rifare discorsi molte volte intrapresi a parti invertite, e a riconoscere negli occhi di chi ci lavora la stessa illogica passione che aveva fatto a suo tempo compiere delle scelte. E un po' di nostalgia per quel mondo, devo ammetterlo, sale su.

sabato 10 marzo 2012

Dio è morto, Marx è morto, ora pure Moebius

Ricordo una sera a casa di amici giù nel cuneese, io che entro nella stanza mentre la televisione trasmette un servizio del tg regione. Sullo schermo stanno passando l'intervista a un personaggio riconosciuto solo da me. Dico, mentre mi inginocchio, "Zitti tutti, stanno intervistando Dio!". Era a Torino Jean Moebius Giraud, per non ricordo quale evento, e io non ne sapevo nulla, ma la cosa peggiore è che un paio di amici erano lì e non mi avevano avvisato che sarebbero andati a sentirlo. Giorgio sappilo: non ve l'ho mai perdonato.



venerdì 9 marzo 2012

Servi della gleba 2.0

Ecco, io da un po' di tempo ho uno scazzo addosso nel lavorare che sta raggiungendo livelli interplanetari, roba tipo distanza tra la Terra e Saturno andata e ritorno, il cui motivo sta principalmente nella mancanza di una prospettiva a medio e lungo termine che non sia il puro e semplice garantirmi una sopravvivenza sempre meno dignitosa, ché le spese aumentano ogni santo giorno mentre la paga base è ferma da anni, per cui vero che mi va di gran culo che non ho marmocchi da mantenere o ex mogli a carico da alimentare, ma mi girano di parecchio le balle proprio per questo motivo, perché uno dovrebbe avere il sacrosanto diritto di riuscire col suo lavoro a mantenere oltre se stesso pure una famiglia, valore e vanto dell'italica società per come l'abbiamo conosciuta finora. E dunque da un po' di tempo combatto la mattina con quella parte di me che rifiuta la sveglia, ed è una parte molto agguerrita, roba che la soneria gli fa un baffo a quella parte lì, pure se suona più e più volte svegliando tutti tranne quella parte di me che dovrebbe svegliarsi e prendere e alzarsi per recarsi a guadagnare il pane quotidiano e si spera anche un po' di companatico. Combatto, e finora vince il mio io responsabile perché alla lunga mi alzo e vado, ma non è che ci abbia tutta 'sta voglia di passare l'intera giornata a sbrigare pratiche inutili in un ufficio in cemento armato e vetri finestra (che regalano un delizioso effetto serra non appena due raggi di sole ci sbattono addosso -praticamente tutto il giorno-, coibentato così male che dal numero di bestemmie che quotidianamente vengono rivolte a chi lo ha progettato dubito che questo sia ancora in buona salute), dalle quali finestre vedo l'accattivante paesaggio composto da altri capannoni con le stesse dimensioni, caratteristiche e, immagino, stesse temperature interne del mio, e da un pezzo di tangenziale sempre piena di mezzi di locomozione d'ogni sorta. Distante, troppo distante, superando la coltre di smog intravvedo la catena delle alpi, sulle cui cime durante la giornata vado a rifugiarmi, ma solo con la mente, purtroppo.
Combatto dicevo, ché al mattino causa demotivazioni e incertezza nel futuro è sempre più pressante la tentazione di girarsi dall'altra parte e continuare a dormire, ma per il momento rimane più forte il senso di responsabilità verso ormai non si sa più bene cosa e dunque si va a lavorare, speranzosi in un avvenire che consenta prima o poi, e ci si augura prima, di lavorare meno a parità di salario, ché la vita è solo una e cose migliori da fare ce ne sarebbero tante, oppure di lavorare uguale ma guadagnando di più, in maniera da godersi prima o poi il frutto di tanta svendita del proprio preziosissimo tempo. Ma poi ti arriva uno come tale Ignazio Visco, Governatore della Banca d'Italia, e ti dice che bisogna "lavorare di più, in più e per più tempo", e la sensazione che ci abbiano veramente fottuti diventa una sconfortante certezza.
Urgono nuove strategie.

mercoledì 7 marzo 2012

Il mondo di fuori

1.
Odore di disinfettante, pungente, saturo d’aceto. Una donna in camice azzurro, bassa più del necessario, non bella, con fare meticoloso lava il pavimento del corridoio alla mia destra. Non risparmia né acqua né fatica. L’odore mi pizzica le narici, lo avverto forte, a ogni respiro entra e va giù, sempre più giù.
Oggi non avevo ancora fatto caso al mio respiro. Ero riuscito ad arrivare fino a quest’ora senza che il pensiero mi si focalizzasse sul respirare e adesso, per colpa di questa stupida donnetta e del suo vizio di spargere aceto dappertutto, sono obbligato a pensare al cavolo di respiro e se in me funziona correttamente. A ogni refolo d’aria che entra dalle narici deve corrispondere un altro refolo d’aria che deve uscire, in un movimento oscillatorio di prendere e lasciare che è bene non si interrompa mai. È così che sta andando, ma per un attimo non ne sono certo.
Pari. Il movimento deve essere pari. Una azione doppia, mai singola, perché ad una inspirazione deve corrispondere una espirazione. Necessaria. Vitale. Aria che entra e aria che esce. Aria, non aceto. Quella stupida donnetta dovrebbe smetterla di mettere così tanto detergente nel secchio. Imparare a diluire. Imparare anche a lavare, forse.
Mi guardo attorno. Devo spostare l’attenzione in qualche modo, così hanno detto: quando ti fissi su un particolare allarga la veduta e non pensare. E’ questo che devo fare, anche se il pensiero va a tutto l’aceto che mi sta entrando nei polmoni. Mi chiudo il naso tra le dita e respiro forte con la bocca. Aria meno pura mi entra dentro, l’odore è meno intenso. Respiro un po’ affannato.
Mi guardo attorno. Queste stanze sono tutte uguali, simili in tutti gli ospedali. Una fila di sedie in metallo laccato e formica bianca, addossate alle pareti bianche anch’esse. Macchie di umido agli angoli alti disegnano sfumature di grigio muffa. Non brutte da vedere, a guardarle con occhio distratto, meglio dei due manifesti reclame posti sul lato lungo di fronte a me.
Mi guardo attorno. Sono esattamente al centro della fila di sedie più numerosa, sette in tutto, tre alla mia destra e tre alla mia sinistra. Io al centro sono seduto e aspetto, con le narici tappate dalle dita per non sentire l’odore che si alza dal pavimento, per non far sì che il pavimento mi entri dentro. Una volta mi è successo, un po’ di tempo fa. Non era un pavimento, era solo terra. Bagnata, fradicia. Ci camminavo sopra da un bel po’. Mi sembrava una bella cosa camminare sotto la pioggia a piedi nudi sulla terra, con le scarpe in una mano e la valigetta nell’altra. L’odore di pioggia e erba e muschio era talmente forte che mi si infilò dentro e ci scivolai, fino a diventare terra io stesso. Una sensazione sgradevole di acqua e fango, giù, dentro me. Io fermo immobile in mezzo al prato, come una statua di legno che come legno assorbe. Non so quantificare quanto durò quella sensazione, abbastanza per spaventarmi. Da allora evito i prati sotto la pioggia e l’ho risolta così.
Mi guardo attorno. La donna in camice azzurro mi lancia occhiate furtive, me ne accorgo anche se finge di guardare altrove. Mi scruta, dal basso della sua veduta. Guarda anche dietro sé, nel corridoio appena lavato, a sincerarsi di protettive presenze che non la facciano restare sola a due metri di distanza da me, che sono seduto con le dita a tappare le narici esattamente in mezzo a una fila di sedie tutte uguali, in pantofole di pelle marrone col pigiama azzurro mare che si intravede sotto la lunga vestaglia da camera, bianca, aperta sul davanti. Forse teme che le tiri dietro una pantofola. L’ho già fatto, una volta, ma non a lei. Le voci in questo posto corrono veloci, si diffondono rapide, tutti sanno. Sanno di come ho lanciato la pantofola, la destra, verso l’infermiera grassa che mi cucina quel cibo schifoso tutti i giorni, da una distanza doppia rispetto a quella che mi divide ora dalla donnetta in camice azzurro. Sanno di come l’ho centrata nel pieno di quel suo volto grasso e molliccio, proprio sulla bocca da cui esce quella voce fastidiosa. Potrei rifarlo, se volessi. Potrei sfilare la pantofola dal mio piede destro e lanciarla a tutta forza verso la donna bassa che sparge troppo aceto nell’aria. Forse dovrei farlo, lo meriterebbe. Potrei farlo ma non voglio. Lo sguardo che lancio verso il camice azzurro che si muove tra acqua e aceto dice questo, come il sorriso che accompagna lo sguardo. La donna sparisce dietro il muro e sento solo lo sciabordio dello straccio nel secchio.
Mi volto a guardare di fronte, le dita tappano ancora le narici.
Aspetto.
Sì, avrei potuto farlo. Lanciare di nuovo qualcosa di mio addosso a qualcuno.
Non che sia una gran soddisfazione alla fine. E’ troppo il trambusto che segue quel gesto. Magari nel momento in cui la mano va a posarsi sulla suola della calzatura per sfilarla, in cui la mente già vede il percorso che farà qualche attimo dopo, quel gesto può sembrare liberatorio, un moto di energia che si propaga nell’aria fuoriuscendo da dove trabocca, ristabilendo per un attimo l’equilibrio. Ma è un attimo, appunto. Dopo sei solo uno con un pigiama azzurro mare e una pantofola in meno ai piedi, con un sacco di sguardi fissi addosso, più fastidiosi di quello che volevi scacciare, e magari tocca pure sentire parole parole parole e tutto il resto. Insomma, non ne vale molto la pena.
"Ecco”, mi dico mollando la presa delle dita e provando a far rientrare l’aria attraverso il naso, “sono guarito!”, ma il respiro mi sembra ancora troppo affannato, l’odore ancora troppo forte e l’attenzione ancora troppo rivolta verso quella parte di me che regola il flusso d’aria per essere guarito veramente. Chiudo gli occhi e ci provo, ad allargare la veduta, ma tutto ciò che riesco a fare in questo momento è richiudermi le narici, respirare forte con la bocca e, più che altro, aspettare, aspettare, aspettare.
La prima volta che sono venuto qui in questa stanza c’era più gente attorno a me. Non era una bella giornata. Io ero sempre seduto su questa sedia, esattamente a metà della parete, ma ai fianchi avevo mia madre da un lato e mio padre dall’altro. La simmetria era rovinata da mio fratello, ha un vero talento nel rovinare le simmetrie, lui. Stava in piedi di fronte alla finestra a sinistra, guardava fuori e moriva dalla voglia di fumare una delle sue stupide sigarette col filtro bianco: un elemento di disturbo in un quadro altrimenti perfetto. Ci aveva portati lui qui tutti quanti e il viaggio era stato piuttosto silenzioso, dopo tutto il baccano che lo aveva preceduto, poche indispensabili parole per tutto il tragitto, con lui che lasciava parlare le sue sigarette tutte bianche. Guidava silenzioso e fumava, con mio padre a fianco e io e mia madre seduti dietro. Lei aveva l’aria preoccupata, ma è tipico di mia madre avere l’aria preoccupata, mio padre invece sembrava più normale, forse rassegnato. Mio fratello sembrava scocciato. In effetti aveva dovuto prendere una mattinata libera dal lavoro per portarci tutti quanti in questo posto e la cosa lo disturbava, anche se non lo diceva apertamente. Più che altro fumava e dalla quantità di cicche spente potevi capire tutto il suo nervosismo nel dover fare quello che stava facendo. Che poi, non è che stesse facendo chissà cosa. Guidare un’automobile con tre passeggeri a bordo verso un ospedale alle dieci del mattino. Forse era scocciato per via che la mamma lo aveva svegliato nel cuore della notte a causa mia, ma allora la colpa era della mamma, non mia, e non capivo perché quando arrivò mi salutò a stento.
E’ sempre stato strano questo mio fratello. Bravo, niente da dire, e pure gran lavoratore. Parlava sempre poco, e la cosa mi piaceva molto, anche se in quel poco riusciva a smontare tutto quello che facevo. O che non facevo. Insomma, questo mio fratello sembrava fosse stato piazzato lì per qualche oscuro motivo a badare a tutte le faccende che mi riguardavano, e in tutte ci trovava qualcosa da ridire, e in tutte sembrava ci fosse sempre qualcosa da correggere. Un gran rompicoglioni, ad essere sincero.
L’attesa per il colloquio giornaliero con il medico che mi tiene in cura è molto fastidiosa. Nella stanza tutta bianca dove mi trovo non c’è nulla che possa permetterti di trascorrere il tempo senza dover pensare a te stesso, all’aceto e a come respiri. L’unica distrazione è data dai due manifesti sbiaditi appesi alla parete di fronte, ma li ho già letti tanto da sapere a memoria cosa c’è scritto, e non è che siano tanto interessanti. Di più: qualcosa in loro me li rende decisamente antipatici. Il primo è uno stupido poster di propaganda per la donazione del sangue, talmente vecchio che ricordo di averlo visto già parecchi anni addietro e che, ora che ci penso, non mi è mai piaciuto. Ci sono disegnati quattro scolaretti sorridenti dall’aria tutta per benino che fanno girotondo scambiandosi fiori rossi, e ognuno di loro reca sul grembiulino una scritta con quello che deve essere il proprio gruppo sanguigno, e una scritta in alto a destra chiede A che gruppo appartieni?, perché Saperlo può salvare la tua vita, e una scritta enorme in basso reca l’acronimo dell’associazione donatori, e allora il tutto è un modo che hanno questi donatori di far proseliti, immagino. Il tutto, scolaretti e scritte e domande, in un campo verde acido che disturba gli occhi. Sarebbe stato meglio un campo rosso a mio avviso, dato che parliamo di sangue, perché a me tutto l’insieme non richiama affatto il sangue, né mi spinge a donarlo, anzi tutto il contrario, perché gli scolaretti sono disegnati veramente male e sono troppo per benino e non mi ispirano nessuna simpatia. Mi ricordano certi compagni che avevo al tempo delle elementari, sempre ben vestiti e ordinati e col padre fuori in auto ad attendere. Anzi, ora che ci penso, uno di loro, quello biondo, mi ricorda quello che aveva detto alla maestra che io gli avevo rubato non so che merenda, e la maestra lo aveva detto alla direttrice, e la direttrice lo aveva detto a mia madre, e la notizia, dopo tutto questo passaggio femminile, era finita alle orecchie di mio padre e in ultimissimo passaggio alle sue sberle, maschilissime nonostante l’apparenza. Per cui se la mia vita non verrà salvata, non essendomi mai premurato di sapere a che gruppo sanguigno appartengo a causa della mia avversione verso le donazioni nata da una avversione verso uno stupido poster contenente messaggi che per me andavano oltre le scritte e i disegnini, ciò è a causa di una merenda mai rubata e soprattutto di uno stronzetto biondo col padre fuori in macchina ad aspettare.
L’altro poster mi è antipatico perché c’è il mare, e a me non piace il mare.
Potrebbero mettere qualche rivista. Uno potrebbe venire qua dentro, sedersi su una qualunque delle sedie tutte uguali e sfogliare una rivista. Gli impedirebbe certo di concentrarsi su inutili donnette in camice azzurro che spargono troppo detergente, sul detergente che sa troppo di aceto e di conseguenza sul funzionamento del proprio respiro. Ne guadagnerebbe, il respiro, se ci fosse una rivista a distrarre e non solo due inutili manifesti. Anche solo una di quelle stupide riviste mediche che abbondano nella stanza del dottore che mi ha in cura. Non sarebbe molto interessante neanche quella, ma uno passerebbe il tempo, lo ingannerebbe, si dice. Evidentemente in questo posto non sono ammessi inganni, verso nessuno, nemmeno verso entità immateriali. Peccato. Sarebbe stato un buon modo di trascorrere i minuti che passano dalla tua entrata in questa stanza tutta bianca e il momento in cui dovrai lasciarla per sederti di fronte a un signore in camice lungo, tutto bianco, e parlare.



2.



Il dottore ha la faccia scura. Una barba ispida e grigiastra gli ricopre metà del volto, con peli che gli arrivano fin sulle gote, quasi a ridosso di quei due occhietti piccoli e neri sormontati da sopracciglia troppo folte. Anche le mani sono pelose, troppo, e affusolate oltremisura. Brutte a vedersi: sbucando fuori dal bianco delle maniche appaiono come due enormi ragni in attesa di cibo. Non mi piacciono. Neanche lui mi piace, è troppo peloso: sbuffi neri e grigi di pelo che fuoriescono dappertutto. Dalle maniche, da dietro il collo, dal petto davanti! Tanto pelo superfluo è mitigato da una pelata lucida e tonda, quasi perfetta. Sembrerebbe che la natura abbia voluto bilanciare tanta abbondanza pilifera a scapito dei capelli, ma il tutto gli dona un’aria piuttosto ridicola. Fuma sigari toscani. Non qui naturalmente, ma l’ho visto un paio di volte giù in cortile e comunque l’odore di tabacco che emana è così forte che riesce a soffocare anche l’odore dell’aceto della donnetta troppo bassa. Non saprei dire quale è peggio. Forse l’aceto, a pensarci. Sarà che una volta anch’io fumavo, sigarette, poi sono entrato qua dentro e me ne sono dovuto dimenticare.
Ha uno strano modo di guardarmi, il dottore. Di sottecchi, non saprei dire. Comunque un po’ mi disturba. A volte quando mi soffermo sui suoi occhi troppo piccoli e troppo scuri mi viene voglia di tirargli addosso la prima cosa che mi capita, ma mi trattengo, non so bene perché. Forse per via che poi mi chiederebbe il motivo per cui gli ho lanciato addosso qualcosa, e non sono troppo sicuro del fatto che avere occhi troppo piccoli e troppo scuri sia un motivo bastante per riceversi cose addosso. Voglio dire, non è come per la donnetta dell’aceto o come per la donna grassa del cibo schifoso, che è evidente che se lo meritano che qualcuno gli lanci addosso qualcosa, ma per qualche strano motivo penso che anche lui se lo meriti. Almeno, così mi sembra.
I nostri colloqui avvengono da seduti, anche se avrei preferito che avvenissero come si vede in certi film, io sdraiato sul lettino e lui seduto dietro di me. Sarebbe stato meglio, penso. Più comodo. Avrebbe potuto anche fumare uno dei suoi sigari puzzolenti se proprio avesse voluto, non mi avrebbe dato fastidio. O forse sì. Forse l’odore del suo sigaro mi avrebbe costretto a concentrarmi sul respiro, a tapparmi le narici e a pensare ad altro come per l’aceto della donnetta troppo bassa, e allora è meglio che avvengano come ora, seduti, uno di fronte all’altro con una scrivania di mezzo come a un colloquio di lavoro: io che cerco la posizione meno imbarazzante, lui con i gomiti a bucare i braccioli, le mani pelose davanti al naso, le dita appoggiate le une contro le altre. Ogni tanto le apre e le chiude, ogni tanto le flette e le riallunga. Sembra un enorme ragno allo specchio.
Chiede cose, sempre le stesse. Io dico cose, sempre le stesse. D’altronde qui dentro non ci sono grosse novità, a meno che non lanci qualcosa contro qualcuno, e questo è da un po’ che non capita, e quello che è successo fuori di qui non lo si può più cambiare. Dico cose generiche, come sto, cosa penso, cose così. Ogni tanto il dottore peloso annuisce, ma più che altro mi guarda con quegli occhietti bui e mi ascolta. Non saprei dire quale di queste cose mi dà più fastidio.
Ripete diverse volte la parola “bene”. All’inizio pensavo che se ripeteva così tante volte la parola bene fosse perché le cose andavano davvero bene, ma poi mi sono accorto che la ripeteva anche quando le cose non andavano affatto bene, un po’ come quando ti chiedono come va? e tu per riflesso dici bene! anche se non va bene per niente e anzi spesso le cose vanno decisamente male, e allora ho smesso di farci caso e lascio che dia aria alla bocca in quel modo, se gli fa piacere.
Dopo un po’ il colloquio finisce, ultimamente è sempre più breve, e io mi ritrovo in piedi fuori dalla porta nella stanza tutta bianca piena di sedie tutte bianche.
Penso sempre, in quel momento, che forse avrei potuto dire di più. Fare come una volta, parlare, dire, spiegare. Perdere tempo a raccontare cose di me avvenute in anni remoti, pure le cose senza importanza, che anzi pare che siano proprio le cose senza importanza ad interessare maggiormente il dottore peloso dalle mani di ragno. Non so il motivo, o a cosa gli serva saperle. Io il nesso tra il fatto che a nove anni una volta piansi un giorno intero, perché ero convinto che mia madre fosse morta, e il trovarmi oggi qui dentro non riesco a trovarlo. In realtà non era affatto morta, era solo partita per andare da quella sua parente nell’altra città e non sarebbe tornata a casa quella sera, ma io ero convinto che fosse morta e che non volevano dirmelo. Comunque non gliene facevo una colpa, anzi, li perdonavo, mio padre e mio fratello. Pensavo fosse una bella cosa da parte loro preoccuparsi di non farmi sapere una cosa brutta come il fatto che la mamma fosse morta, e gli dicevo grazie, e loro non capivano perché insistessi in quelle domande su dove la avrebbero seppellita e su come avrei dovuto vestirmi per il funerale. Il tutto ovviamente in un mare di lacrime che però a un certo punto non distinsi più se fossero per la madre morta in quanto tale o se per la commozione di vedere me così emozionato e sensibile, seppure verso un qualcosa tanto triste come una madre morta. Dubbi non da poco, se proprio vogliamo andare a scavare, ma non è compito mio andare a scavare. Diciamo che dovrebbe essere il dottore peloso con le mani di ragno a scavare e trovare interpretazioni, semmai ce ne fossero. Invece lui si limita ad annuire e a dire bene. E allora bene, che devo fare?
Me ne sto lì, in piedi fuori dalla porta per qualche secondo, il tempo necessario a vedermi, per poi uscire via dalla stanza veloce, senza voltarmi.


3.


Non è semplice. Un giorno andava tutto bene e il ricordo dopo sono qui, davanti a una finestra chiusa, a guardare dai vetri sporchi la vita di fuori e a chiedermi perché sono qui dentro. Fanno quasi tre anni. Io ci ho pensato tante volte, al perché sono qui dentro. Qualche volta mi pare anche di capirlo, veramente, ma davvero non è semplice.
Non che mi manchi molto, la vita di fuori. Ogni tanto vengono mio padre e mia madre, e mi raccontano un sacco di cose. Cosa hanno fatto, cosa non hanno fatto. Tutte cose senza nessuna importanza. Sono sempre sorridenti quando vengono, ma io lo so che sono sorrisi provati ad arte. Sembra che si sentano in colpa per il fatto che mentre io me ne devo stare qui dentro a guardare il mondo di fuori da una finestra chiusa, loro invece in quel mondo ci possono vivere e muovere. In colpa per quella che ritengono una situazione più fortunata rispetto alla mia, e per questo sorridono forzato, e per questo sperano sempre che io esca da qui. Punti di vista.
Evitano come la peste ogni riferimento ai giorni che precedettero il mio arrivo qui, ma io lo so che quei giorni sono in cima ai loro pensieri. Più che altro si domandano il perché. Il perché, quello non lo hanno mai capito, e io non mi sono mai premurato di tentare di spiegarglielo: sono cose che ci devi arrivare da solo, penso. Comunque mi rendo conto che non è facile capire perché a un certo punto ho fatto quello che ho fatto, con tutte le conseguenze del caso, non solo per me. Oggi, di tutto quel baccano di parole e gesti e situazioni che precedettero il mio arrivo in questo posto, come conseguenza rimane che loro vivono fuori ed io vivo qua dentro, e ciò comporta silenzi da parte loro nel loro stupido mondo, e un senso di vergogna che li prende quando devono accennare a me. Ma non è che io abbia poi fatto chissà che di vergognoso. È di questo posto che si vergognano, e del fatto che un loro figlio ci viva dentro, e questo nonostante a quel loro figlio, cioè a me, la cosa sia del tutto indifferente, per cui non ci sarebbe proprio nulla di cui vergognarsi. Ma è opinione comune in quel loro mondo di fuori che questo sia un posto di cui vergognarsi, a maggior ragione se uno dei tuoi figli ci è finito dentro, e i miei sono gente a cui piace sentirsi a proprio agio nel mondo in cui fanno e non fanno cose, per cui si adeguano al pensiero corrente e dunque alla vergogna, vera o presunta non ha molta importanza. Ecco, io quando vengono a trovarmi e avverto in loro quel senso di vergogna gli lancerei addosso qualcosa, un po’ come feci quella sera che precedette la mia entrata in questo posto, non fosse che come per il dottore peloso dalle mani di ragno non sono troppo sicuro del fatto che se lo meritino. Quel mio fratello invece sì, che si merita che qualcuno gli lanci delle cose addosso, e l’ho anche fatto, l’ultima volta che è stato qui a trovarmi. Aveva preso in quel suo modo saccente e fastidioso a spiegarmi le cose, perché lui sa tutto capisce tutto ha in mano sempre le chiavi di tutto. Lui non ha mai avuto dubbi! Mai, neppure una volta! Le cose le ha capite da subito. Per dire, lui finite le medie disse voglio fare la scuola per geometri, e a chi gli chiedeva perché rispondeva che gli piacevano le case, per cui nessuno si stupì quando poi decise di diventare architetto e ancor meno si stupì quando davvero lo diventò e cominciò a costruirle, le case, tra l’altro pure belle devo dire. Insomma, in quelle poche parole dette a quindici anni lui aveva fatto tutto un discorso, prima a sé e poi agli altri, che lo vedevano proiettato in un futuro incanalato in una ben precisa direzione che lui aveva già bene in mente. Gli anni successivi gli erano serviti solo per mettere in pratica una cosa che già sapeva, oltre che per fare da esempio a me che invece a quindici anni nemmeno mi chiedevo cosa davvero mi piacesse, e tantomeno cosa mai avessi voluto fare da lì in avanti. E tutto questo esempio, vantato e indicato da genitori soddisfatti, di come si deve fare per viver bene nel mondo di fuori, a me non è mai piaciuto –mi dava la stessa sensazione del troppo aceto sui pavimenti- e non l’ho mai seguito, seppure in qualche parte di me deve essere andato a infilarsi, se è vero che a ogni mio fallimento torna su assieme alla voglia di lanciar cose addosso a qualcuno.
Il mondo di fuori. Io il mondo di fuori l’ho conosciuto, e per un sacco di tempo ne ho fatto anche parte. Facevo e non facevo le stesse cose senza importanza di cui raccontano i miei genitori quando vengono a trovarmi e che mi elencava quel mio fratello quando ancora ci veniva, prima che gli tirassi addosso quella bottiglia e lo facessi arrabbiare e gli facessi decidere che era il caso che non venisse più. Alcune di quelle cose le facevo perché credevo mi potessero piacere, altre perché quelle sono le cose che si fanno quando vivi una vita calato in quel mondo. E’ diverso da qui, non so spiegare. L’unica cosa che so è che a un dato momento tutto cominciò a sembrarmi come se a fare quelle cose fosse un altro. Mi vedevo fare e non fare cose e ne ridevo, tra me e me dapprima, poi ne ridevo e basta, sguaiatamente. E nello stesso tempo mi accorsi di come le cose, tutte, puzzassero di un odore pungente da levare il respiro, e che il più delle volte a spargere odori era chi mi stava attorno. I miei colleghi, in quell’ufficio con una sola finestra dove trascorrevo gran parte della giornata. I miei genitori, a casa, e quel mio fratello, quando veniva a trovarci. Tutti toccavano cose, calpestavano suoli, occupavano spazi che dopo poco cominciavano ad emettere odori soffocanti, che mi costringevano a tapparmi le narici, a concentrarmi sul respiro e a lanciare oggetti verso di loro, nel tentativo di mitigare la puzza, per non far sì che la puzza mi entrasse dentro. Andò avanti così per un po’, poi decisero che dovevo venire qui dentro, ma non è poi così male, qui dentro. Attorno a me gente che vive fuori di qui è indaffarata in cose che pensano abbiano un senso. Altra gente, che invece qui dentro ci vive, non si pone il problema e campa i propri giorni, all’apparenza tutti uguali. Anch’io vivo giorni all’apparenza tutti uguali. Parlo col dottore peloso dalle mani di ragno, passeggio dentro il caseggiato tra corridoi appena lavati da donne troppo basse, mangio il cattivo cibo servito da donne troppo grasse, guardo il mondo di fuori da una finestra troppo sporca, per ore ed ore.
Restare qui, alla finestra a guardar fuori, è la cosa che più mi piace. Sotto di me vedo la gente che passa, in auto, a piedi, da soli, in compagnia. Sono in tanti lì fuori. Li vedo fare cose, non fare cose, muoversi e andare verso direzioni che forse davvero conoscono bene e davvero è ciò che vogliono raggiungere. Come quel mio fratello. O forse sono come me, come ero io prima di avvertire gli odori, prima che lanciassi cose, prima di entrare qui dentro. Difficile dirlo, non è un mio problema, comunque mi piace il fatto di sapere che io posso stare a guardarli fare e non fare cose da qui, dalla finestra, senza dover fare e non fare le stesse cose io stesso. Giusto appoggiare, come ora, la fronte al vetro e lasciare che un sole pallido d’aprile mi scaldi la testa. E’ piacevole come sensazione.
Mi guardo attorno. Non è poi così brutto stare qui dentro, per quanto la donna grassa cucini veramente male e il dottore peloso dalle mani di ragno dica bene senza conoscerne davvero il significato. Si può sopportare. Spesso la donnetta bassa mette troppo detergente nel secchio saturando l’aria di aceto, e mi obbliga per questo a concentrarmi sul respiro, ma basta turarsi le narici e pensare ad altro: non è difficile, ormai so come fare. Per cui penso proprio che vorrei restare ancora qui, almeno per un po’. Per continuare a farlo mi basta poco. Mi basta parlare ogni giorno col dottore peloso, mangiare tutto quello che mi passano e ogni tanto lanciare qualcosa di mio addosso a qualcuno. Qualcuno che se lo meriti. In fondo lo si trova sempre. Basta guardare.

sabato 25 febbraio 2012

Figli dei tempi

Poi uno la sera cazzeggia, e si ritrova ad essere il quasi sessantun milionesimo visitatore del video della cover di una canzone di cui fino a poco tempo prima ignorava praticamente l'esistenza. Scopre così la presenza sul web di un gruppo di canadesi che da tempo mettono in giro cover di una certa qualità (e a me le cover piacciono sempre un sacco), tanto nella musica che nei video (tipo qua, o qua). Grazie alla cover di Somebody That I Used to Know, che li ha fatti spopolare sul Tubo, i ragazzotti hanno finalmente firmato un contratto con una major, la Columbia Records, e da qui in poi si vedrà. Che ad un ascolto veloce quando fanno cose loro non sembrano certo dei fenomeni, però tanto di cappello nell'aver saputo venir fuori sfruttando quello che offrono i tempi moderni.

Walk off the Earth - Money Tree

venerdì 17 febbraio 2012

Come in una fiera dell'est

Ci sono stati giorni in cui ho davvero avuto voglia di lavorare. Non sono questi. Per dirla tutta non lo sono da un bel po'. Non so se è solo colpa mia. Forse sì, ma è dovuto a uno scazzo più generale, o almeno io lo noto in tanti. Sarà questo clima di crisi oramai perenne in cui ti costringono a vivere a fartela passare la voglia: d'altronde che ti sbatti a fare, se tutto ciò che ti è concesso è far girare il mese e ancora grazie? Dice, devi trovare dentro te gli stimoli: bello, vero. Ma, e se uno li cerca e non li trova? Lavoro da venticinque anni, sempre sotto altri, tranne una rara parentesi. Ecco, la rara parentesi. Quella era stimolante. Dice, allora fai quello: bello, vero. Ma, e se uno si è già giocato il jolly, quello della serie "se-non-lo-faccio-adesso-non-lo-faccio-mai-più", con una buona dose di coraggioso "o-la-va-o-la-spacca" che a cosa fatte, anni di mazzo inutile dopo, ha come risultato dato "la-spacca"? Hai voglia a dire fai quello, ché l'hai già fatto quello. La sola idea di rifarlo, per quanto te lo risogni tutte le notti un lavoro così (bello, soddisfacente, gratificante, guadagno zero, debiti tanti ma gratificante), ti fa venire tutta una serie di pensieri tra il vorrei ma non posso (più) frustranti come quelli di un eunuco in un harem. Che oggi il periodo è quello che è, le mie tasche sono quelle che sono, il conto in banca è da lasciamo perdere, e c'è il dentista da pagare, la macchina da cambiare, il debito pregresso da appianare, e c'è il lavoro attuale che nonostante mille rassicurazioni resta precario, e c'è l'età che mannaggia avanza, e c'è che ormai sono da anni fuori dal giro, insomma tanti etc etc etc che sommati l'un l'altro ti portano a una roba che assomiglia maledettamente a una -non vorrei usare il termine, ma per comodità conviene chiamare le cose col loro nome- depressione. Ma le mie depressioni sono sotto controllo da lustri, che mi freghi una volta poi basta, quindi quella matassa informe tutta collegata di pensieri che diventano aspirazioni, che diventano desideri, che diventano progetti, che si trasformano in velleità, che rimangono sogni, che si trasformano in frustrazioni, tutta una fiera dell'est che è sempre lì che gira e girando diventa energia che non sai dove mettere, e finisci per buttartela addosso in variegati autolesionistici modi che passano sotto il nome di psicosomatismi di cui si è diventati col tempo esperti e maestri (dimmi dove hai male, ti dirò chi sei). Ma non puoi lamentarti, che dice c'è gente in giro che sta peggio, ed è qui che si chiude il cerchio: ti puoi manco lamentare, cazzarola!
E allora dice che fai? In apparenza niente, si aspetta che la voglia di lavorare ritorni. In realtà provi e riprovi a districare e dare corpo alla matassa di cui sopra. Spezzare il cerchio, avverrà prima o poi (i pensieri sono sostanza in embrione), anche se quarantaquattro primavere hanno insegnato che sembrerà non dipendere da te. O forse non ci si riuscirà e si rimarrà intrappolati nel circolo viziosissimo fatto di pensieri-aspirazioni-desideri-progetti-velleità-sogni-frustrazioni, come oggi, a volte di più a volte di meno. Forse a voi non sembrerà, ma pure questo è vivere.

mercoledì 15 febbraio 2012

Modelli

Il computer dell'ufficio ha deciso di lasciarci, così, senza un perché, per stanchezza, penso. Da un po' di tempo faticava all'avvio (il freddo, penso), ci metteva sempre quel minuto in più, giorno dopo giorno, sempre più stanco di accendersi e cominciare a macinare dati (la vecchiaia, penso), tanto che dovevo insistere più e più volte a riavviarlo (testardo, io). Lui abbozzava. Inizialmente si rifiutava, ma poi, sfinito, finiva per ripartire. Finchè, l'altro giorno, non ne ha più voluto sapere di lanciare windows, versione ancora xp, obsoleta come lui. Ed è rimasto lì, muto, senza ulteriori spiegazioni, quasi a dirci "e mò voglio proprio vedere chi la vince!". Ha vinto lui. Ora è lì, in un angolo. A riposarsi, penso.
Aveva questo pc da un po' di anni caricato uno sfondo che a me piaceva, un Superman disegnato da Alex Ross, ma alla lunga tutto stufa e l'ho cambiato. Ché 'sto alieno dotato di superpoteri a guardarmi dall'alto in basso, di continuo, a ricordarmi che schifezzine che siamo tutti quanti al contrario di lui così perfetto e inarrivabile cominciava a darmi sui nervi. Avevo bisogno di qualcosa di più umano, di più avvicinabile, più terra terra, più in linea con i tempi che corrono. Ci ho messo il Drugo e Walter Sobchak. Come modelli attualmente li preferisco.

domenica 5 febbraio 2012

Confessione (di un malandrino)

Sono lì, fuori, al gelo di questo strano inverno a fumare una sigaretta, e all'improvviso mi balena alla mente una immagine, un Angelo Branduardi che sorride e suona, e non so bene quale sia stata l'associazione di idee che me l'ha fatta arrivare, ma ormai è lì. Sarà che mi ricorda inverni lontani e sarà stato il freddo, penso, e la neve ghiacciata ai bordi delle strade e sui tetti, ché nei miei ricordi gli inverni sono sempre stati innevati da novembre a marzo inoltrato, e il freddo era freddo più o meno come adesso, sempre. Un inverno in particolare, neve e freddo come oggi, io nella mia stanza, avrò avuto quattordici anni, ascolto musica e leggo, non c'era molto altro da fare, e lo stereo del fratello grande restituisce note che per me sono anche qualcosa di più. Una emozione particolare, il cantautore preferito, già da qualche anno, ché d'altronde sembrava fatta apposta per i ragazzini quella sua musica. Un viaggio in un mondo parallelo, ecco cos'era, dove fate, streghe, buffoni di corte e signori medievali si mischiavano alle mie letture, fatte di fumetti già strapieni di fantasia, e mi restituivano una realtà diversa, più adatta alle mie corde.
E poi, poi è successo qualcosa, pochi anni dopo, qualcosa che me lo ha fatto lasciare indietro quel mio cantautore preferito. Non l'ho più seguito, di colpo, ma senza motivo apparente. Non ne ho perso le tracce, ho solo evitato di approfondire. Non so perché. Forse ero solo cresciuto, e crescendo sembrava brutto ammettere che le emozioni che dava erano troppo forti. Una cosa stupida a pensarci, perché ancora oggi io non sono cambiato (il cuore ed i pensieri son gli stessi), o almeno non così tanto. O forse inconsciamente ho voluto legarlo a quel periodo, chiuderlo in una bolla, tenermelo caro, perché il ricordo non sfiorisse, perché niente ne rovinasse il sapore. Una cosa ancora più stupida.
Continua a fare musica Branduardi, nel suo solito poetico modo, e io mi sono perso parecchio negli ultimi trenta anni: rimedieremo, in qualche maniera. Tra una settimana compie gli anni, già sessantadue. Auguri.


P.S.


Ci sono in rete alcune belle interviste a Branduardi, questa (in quattro parti) di qualche anno fa, quest'altra più recente. Da vedere.