domenica 30 ottobre 2011

Quintorigo tornate insieme

Ecco, io poi non sono Elio e Le Storie Tese, per cui un brano per chiedere che un gruppo si rimetta insieme non sono in grado di farlo, primo perché non so suonare manco le nacchere, secondo perché non so scrivere nulla, eccezion fatta per inutili post che lasciano il tempo che trovano e hanno la visibilità che hanno, però un appello affinché i Quintorigo (nelle persone dei musicisti Andrea e Gionata Costa, Stefano Ricci e Valentino Bianchi), e il cantante John De Leo (dove dire cantante è certamente riduttivo e bisognerebbe coniare, sempre se non c'è già, un termine adatto a definire uno che suona la propria voce) lascino da parte eventuali screzi e incomprensioni e tornino a deliziare pubblico e critica come ai bei tempi che furono, un appello dicevo posso sempre lanciarlo nella rete, non per il possibile seguito che questo potrà avere, visti i miei scarsi contatti, ma nell'eventualità, remotissima, che i diretti interessati possano leggerlo e prendere in considerazione la faccenda. Il panorama musicale italiano ne guadagnerebbe, loro probabilmente pure, le mie orecchie, afflitte negli anni da improbabili sostituti, anche. Grazie, e spero di poterlo dire, un giorno.

Quintorigo - Nero Vivo

venerdì 28 ottobre 2011

Malatisani

Luca Barberini - Folla (Mosaico)

Sai, poi hai voglia ad incazzarti sentendo parlare di pensioni sempre più lontane e di licenziamenti facili, promesse ad una Europa che sta diventando sempre più esigente e, non che ci fossero dubbi al riguardo, di fatto padrona della politica nostrana, quando chi le vivrà sulla propria pelle non trova di meglio che accalcarsi alle inaugurazioni di un paio di centri commerciali, a Roma come a Torino. Per carità, mica ci si aspettava niente di diverso. La realtà la si conosce, e i propri simili anche, per cui lo stupore è solo un riflesso condizionato. Chi lo sa, forse sono tutti consapevoli della situazione e siamo ormai al classico finché ce n'è, viva il Re, oppure -più probabile- di andare a scatafascio ce lo strameritiamo, visto il menefreghismo imperante. Quel che è certo è che mi pare si sia perso del tutto il senso di cosa conti davvero. E' un mondo di malatisani questo, e allora -davvero- sarebbe "meglio la fine, che un lieto fine incolore".

Ustmamo' - Cosa Conta

sabato 22 ottobre 2011

Different ways

Uff, testa rintronata da troppo sonno. Ho rivisto la luce all'una e mezza del pomeriggio solo perché svegliato dal rientro a casa della mia bella, ma avrei volentieri continuato a dormire: dieci ore di sonno filato non mi sono sembrate sufficienti a smaltire la stanchezza di due settimane di risvegli lavorativi. E' che i miei bioritmi sono tarati su latitudini altre, rendo al meglio tra pomeriggio e sera, e tirar tardi è la cosa che più mi piace, anche se non posso più permettermelo. Il mattino, per me, non ha l'oro in bocca.
Ieri notte ho fatto tardi perché mi sono inchiodato al televisore, raitre, Fuori Orario, a guardare il documentario datato 2008 di Philip Davis Guggenheim, It Might Get Loud, documentario sulla chitarra elettrica vista dai rappresentanti di tre generazioni di chitarristi, Jimmy Page, The Edge e Jack White. Non lo avevo mai visto tutto, giusto qualche spezzone qua e là, e l'ho trovato veramente ben fatto. Ne viene infatti fuori un discorso che va al di là della musica in sé, dell'approccio strettamente legato allo strumento e alla sua evoluzione, ma tocca il tema più ampio del cambiamento generazionale e delle difficoltà legate al proprio tempo. Se un Jimmy Page, espressione degli anni sessanta/settanta assurto a mito per ciò che ha introdotto (mito pure per chi non ti aspetti, basta guardare gli occhi dei suoi due colleghi), ha avuto il merito di aver aperto una strada ricevendone molto in cambio, e se un David Howell Evans detto The Edge ha proseguito il discorso negli anni ottanta/novanta, affinandolo, ricevendone in cambio molto di più (moltissimo di più, se andiamo a vedere il fatturato degli U2), un John Anthony Gillis aka Jack White, espressione degli anno zero, ha dovuto invece faticare non poco per trovare una propria dimensione, sperimentando (usando chitarre riadattate o di scarso valore) e cercando strade alternative, tra cui una ricerca esasperata del look come mezzo per arrivare a più gente possibile. Indovinate un po' a chi vanno le mie simpatie.

The Raconteurs - Steady As She Goes (live)

martedì 18 ottobre 2011

Rivoluzione d'ottobre

Io arrivo sempre tardi. Prendi certe parole ad esempio, prima che mi accorga che son tornate di moda e sono utilizzate a ogni piè sospinto, fanno in tempo a cambiare, a diventare vecchie e a essere nuovamente riposte nel cassetto. Mai seguito le mode, d'altronde. Ora pare sia di nuovo il turno della parolina "rivoluzione", che come i risvolti ai pantaloni o le tinte pastello ogni tanto torna ad essere usata, o abusata, o tutte e due. Per dire, io mica mi ero accorto che sabato si andava giù a Roma a far la rivoluzione, ho idea che non se ne fossero accorti manco tanti che laggiù c'erano, e probabilmente, visto come è finita, manco chi aveva messo su il baraccone. Ma a quanto pare c'è in giro questa aria rivoluzionaria che soffia un po' da tutte le parti, che partendo dal mondo arabo (che bisogna dirlo, c'entra una beata mazza con noialtri, ma sempre più gente dice che bisogna prendere esempio da là: vabbeh...), e proseguendo per le varie piazze d'Europa e d'America arriva pure da noi, che siamo provinciali e quindi le cose arrivano sempre con un pelino di ritardo. Ma noi siamo pure un paese strano, le parole hanno un po' perso il loro significato, e uno dice rivoluzione ma magari pensa spettacolino di strada molto colorato e rumoroso in grado di far pensare la gente. Però può pure finire che ti ritrovi qualcuno che le parole le prende sul serio, per cui se uno sente dire o legge cose tipo queste qua, è abbastanza naturale che ti ritrovi in men che non si dica con un centro cittadino messo a ferro e fuoco. Insomma, non c'è da stupirsi, e da un certo punto di vista qua il torto è mica da parte di questi black bloc (chiamiamoli così per comodità ché un nome non so se ce l'hanno). Il torto è da parte di chi pensa di essere un rivoluzionario perché pianta le tende, urla a comando, sfila quando è ora, usa slogan coniati da altre parti e frantuma le palle a chi è poco poco scettico sull'utilità di quanto sopra: se vuoi fare la rivoluzione, e beh, non ci son cazzi, quella devi fare, ed è un gran peccato che la rivoluzione per come la si intende normalmente pare si possa fare solo incazzandosi come bestie. Nel mezzo ci sono poi i manifestanti in buona fede, quelli che davvero sono convinti che con una presenza più o meno assidua e numerosa in piazza si possano cambiare le cose. Io resto convinto che l'unica cosa che cambia, molto spesso, è solo il giro d'affari dei bar adiacenti le manifestazioni, ma, e lo ripeterò fino allo sfinimento, massimo rispetto a costoro: non mi permetterò mai di contestare la loro scelta.
Comunque io oltre ad arrivare sempre tardi sono anche scettico di natura, e se uno mi dice facciamo la rivoluzione, e non parlo di quelli degli spettacolini, parlo degli altri, la prima cosa che mi viene in mente è: per poi fare che? In genere qui le risposte sono tante e variegate, ma spesso si sintetizzano in un "cambiare tutto" che, scusate, ma non so se a me va tanto bene: ci sarà bene qualcosa che vale la pena di tenersi, penso, magari quell'altra paroletta, democrazia, che oggi qua funziona male, ma come idea non è proprio tutta da buttare, no? Se poi quelli che cambieranno tutto è gente che non si fa scrupolo di tirare sassate in testa al "nemico" (e meno male che siamo ancora fermi lì), sfasciare quello che gli capita a tiro con particolare predilezione per gli arredi urbani, tirare fuori dalle tasche verità assolute come fossero caramelle e indicare chi non si trova d'accordo con questi metodi come uno colluso al sistema, beh, io scusate ma di questi mi fido proprio per niente.
Per cui (e qui un bel chissenefotte ci può pure stare) io la rivoluzione non la voglio fare, ché per natura mi piacciono poco i cambiamenti climatici improvvisi figuriamoci quelli socioeconomici, e pure alle manifestazioni colorate finto autoconvocate a cadenze settimanali mi son rotto di starci dietro (ma questo s'era già capito). E questo (lo dico, perché qua pare che per forza devi essere o bianco o nero) non significa affatto che le cose mi vadano bene così, che non ritenga possibile un cambiamento. Lo ritengo possibile certamente, come questi nuovi rivoluzionari da corteo+aperitivo, ma il cambiamento che io mi auguro è soprattutto nella testa e nella coscienza della gente, e la differenza tra me e loro è che io non credo affatto che perché ciò avvenga sia necessario sfilare di continuo col rischio che a qualcuno prudano le mani, sfasci tanto per sfasciare e autorizzi quindi chi governa a tirare mazzate come gli capita, sia vere che metaforiche, cosa che tra l'altro avviene in maniera abbastanza puntuale, prevedibile e con il tacito consenso della maggioranza pecorona che di rivoluzioni e manifestazioni nulla ne sa e nulla ne vuol sapere.
Ad ogni modo il vero cambiamento alla fine penso avverrà naturalmente, e sarà come riguardare un video degli anni ''80: stupirsi cioè di poter essere stati e aver vissuto in quel modo. Avverrà, ne sono certo, nel momento in cui la maggioranza delle persone sarà arrivata a comprendere ciò che oggi credono in pochi, ma sarà per loro esperienza diretta, come lo è stato per gli altri, e non certo per le parole che uno può sprecare tempo a dire, o per le marce che uno può sfiancarsi a fare: mi spiace dirlo, perché mi ci metto pure io in mezzo, ma quelle servono solo a chi le dice e a chi le fa. E sarà buffo, una volta arrivati alle meta, vedere chi oggi attende la rivoluzione sperare ancora e sempre in un'altra.

sabato 15 ottobre 2011

Sempre più distante

Perché la manifestazione di oggi, quella indignata, quella globale, mi lascia così indifferente? E' da giorni che ci penso, e ancora non trovo una risposta. Forse, chi lo sa, la mia recente avversione per le manifestazioni che il più delle volte sono solo preparatorie, neanche alternative, all'aperitivo con gli amici, senza contare quelle che si sa in partenza che finiscono male, si è talmente sedimentata da non lasciarmi più spazio di discernimento. Che ne abbia viste negli ultimi anni organizzare troppe? Può darsi. In effetti di gente in piazza a esprimere il proprio dissenso su temi diversi ma in fondo simili, se ne vede ogni settimana. Studenti, lavoratori, pensionati, precari, disoccupati, comitati referendari, no tav, popoli verdi rossi viola, popoli di tutti i colori, perfino poliziotti (eh già!), partiti partitini e partitelli, sindacati gialli e rossi, tutti a protestare, tutti a dire la stessa cosa: così non va. Difficile che all'affermazione segua una proposta concreta, o meglio, difficile che la proposta concreta che pure c'è, arrivi alla opinione generale. D'altronde le leve dell'informazione sono tenute da altri, da quelli per cui così invece va, e se non c'è corretta informazione non c'è messaggio che possa arrivare a chi è naturalmente disinteressato a certe tematiche, la "ggente", che non è certo meno indignata di fronte ai tanti scandali, anzi, ma sopporta lo stato di cose, abituata com'è a pensare che tutto quanto dipenda da altri. Dunque si vedono continuamente sfilare cortei più o meno colorati, più o meno ordinati, più o meno pacifici, ma delle ragioni della marcia poco si sà e poco arriva alla gente comune, e un cambiamento, va da sé, men che meno. C'è ragione di pensare che questo auspicato rise up globale, a furia di invocarlo invece questa volta arrivi davvero? Francamente ne dubito, ma non è una buona ragione per non essere almeno un po' più che solo solidale, come sono adesso.
E poi, l'indignazione. Io sono stato indignato, per parecchio tempo, da parecchio tempo. Mi sono indignato a causa della politica, dell'economia, del modello di pensiero dominante, del sistema globale, per un fracco di cose, e che così non poteva andare non è certo una novità. Ho sprecato fiato a dire cose, energie a portare avanti perlomeno un discorso personale coerente, non accettando, rifiutando nei limiti del possibile ciò che non mi suonava giusto, anche a costo di pagarla di persona come è successo: non ti ritrovi precario a quarantaquattro anni per caso, d'altronde. Ma ora, che tutti si indignano e si arrabbiano, pure i miei colleghi di lavoro berlusconidi destrorsi verdelega fregati dai loro deputati, mi accorgo che in me l'indignazione non c'è più, ha lasciato posto a un sentimento diverso che non ho ancora inquadrato. Non è proprio indifferenza in verità, e nemmeno rassegnazione, quella mai, piuttosto preoccupazione. Perché è vero, la rabbia è un'energia, e non so questa rabbia crescente in che direzione porta, e perché è vero e già sperimentato che per non cambiare niente bisogna cambiare tutto. E' un rischio questo, che si corre ogni volta che si tira fuori la parola rivoluzione, tornata di moda in questi giorni. Mi accorgo allora che io non vorrei cambiare tutto tutto, solo qualcosa. Quello che non va. Mi rendo conto che il mio voto sempre più a sinistra che potevo è sempre dipeso anche dal fatto che la maggioranza invece tirava a destra, e una cosa troppo sbilanciata prima o poi fa danno. E' un po', tanto per dire, come se si dovesse tirare da terra una barca lungo un fiume. Perchè vada dritta bisogna che le funi tirino da entrambi i lati, da destra come da sinistra, che se tiri da una sola parte è naturale che prima o poi vada a sbattere. E' quello che è successo, mi pare. Dicendo questo, alla fine qualcuno potrebbe dirmi che la mia appartenenza politica è una questione vettoriale più che ideologica, ma bisogna tenere conto che ovviamente uno la sponda da cui tirare se la sceglie, e qui la fisica non c'entra proprio nulla.
Va beh, sono le quattro del pomeriggio. Le cronache dicono che giù a Roma qualche pirla si diverte a dar fuoco alle auto e a distruggere vetrine. Io mi sento sempre più distante.

P.I.L. - Rise

giovedì 6 ottobre 2011

Sai mai dove vai a finire

Lo incrocio tutte le mattine, formato gigante, e mi fa pensare cose. Niente di che, non v'aspettate nulla. Ad esempio che senza saperlo ho visto tutti i film di Paolo Sorrentino e mi son piaciuti tutti ma proprio tutti. Mi è piaciuto ovviamente Il Divo, capolavoro assoluto riconosciuto e osannato, mi sono piaciuti L'Uomo in Più e Le Conseguenze dell'Amore, sempre con un Toni Servillo straordinario, e mi è piaciuto pure L'Amico di Famiglia, girato nell'insolita location di Sabaudia. Sul perchè mi son piaciuti non saprei dire, ché vado a istinto e dovrei scervellarmi troppo per capirlo, ma c'è qualcosa che me li rende vicini e tanto basta. Saranno forse le inquadrature, mai banali, o le colonne sonore, degne del miglior Tarantino, oppure i dialoghi, tranquilli e scarni ma capaci di lanciarti decine di riflessioni. Sarà tutto questo assieme probabilmente. Senza saperlo avevo già messo il regista napoletano nel mio personale pantheon, e a farmene accorgere c'è voluto il volto sul manifesto di un altro a cui manca forse poco per esservi ammesso, per quello che vale: basta solo che ripeta la prova d'attore di The Assassination of Richard Nixon e gli perdono pure il fatto che parla male della ex moglie Madonna! Sì, Sean Penn è di quelli che mi accorgo casualmente che mi piace, e mi stupisce pensarlo, ma mai quanto il fatto di ritenere Daniel Day Lewis il migliore in assoluto.
Ma quella faccia, quel volto, uno smaccato Robert Smith depresso, va oltre il semplice pensiero di aver proprio voglia di andare al cinema a vedermelo. Questo nuovo lavoro italiano dal gusto internazionale (spero che sia meglio dei Muccino!) mi fa venire in mente il Robert Smith originale (che c'entra nulla col film) e a tutto il tempo trascorso dal mio primo ascolto di In Between Days. Ad amici con cui l'ascoltavo che si torturavano i capelli di lacca e gli occhi di rimmel. Ai loro vestiti neri, e alle visite all'Inferno, negozio di Torino, dove li accompagnavo a comprare camicie con le croci in anni in cui odiavo questa città, la sua aria grigia e il suo corredo di tossici sotto i portici di via Po. Al fatto che dicevo che mai e poi mai ci sarei voluto venire a vivere (davvero, mai dire mai). Che mi colpisce di più uno sguardo malinconico di uno sguardo sorridente, e dei primi non ne vedo molti in giro e sembrerebbe un bene, ma è solo perchè la malinconia la si nasconde, mentre è solo l'altra faccia della medaglia. Che se non puoi essere allegro allora tanto vale essere depressi, almeno sei qualcosa.
Che a lasciar liberi i pensieri, cazzarola, non sai mai dove vai a finire.

Talking Heads - This must be the place (live)

mercoledì 5 ottobre 2011

Anni sabbatici

La sveglia risuona di nuovo alle 7.50. La lascio risuonare, come sempre, e mi alzo in tempo per non riuscire a far nulla, perché sono pigro, perché mi piace dormire. Bere un caffè veloce, raccogliere le mie cose, uscire di casa, comprare pane e pranzo, e sigarette se mancano, e benzina se serve, mi porta via pochi calcolati minuti. Mi imbottiglio poi nella lunga coda di quanti escono dalla città per andare al lavoro. Incrocio nel viaggio, lento, l'altrettanto lunga coda di quanti in città vi entrano per gli stessi motivi, e ripenso nel mentre se non sarebbe il caso di scambiarseli i lavori -ne guadagneremmo in tempo e salute-, ma subito dopo ripenso frustrato che in effetti sarebbe un po' complicata come operazione, pensa che bello però!
Arrivo, dopo aver fatto lo stesso percorso, essermi fermato agli stessi semafori, aver cristonato contro le stesse mamme accompagna-il-bambino-a-scuola che lasciano l'auto in quarta fila.
Parcheggio al solito posto, risalgo sempre al terzo piano e mi risiedo alla scrivania, che è come l'ho lasciata, con ancora gli oggetti che avevo abbandonato pensando di non farmene più nulla. Mai dire mai, me li ritrovo invece, e i colleghi in ufficio sono gli stessi di allora, e i capi sempre loro, e il lavoro sempre quello, solo alcune facce nuove tra i dipendenti a cui ci si abitua presto. Qualcuno nello stabile che ospita altri uffici mi riconosce e scherzando mi chiede se ho finito le ferie. Massì, facciamo finta che sia andata così.