sabato 31 marzo 2012

Storie

Io ci ho in mente delle storie, e a volte mi ci perdo pure dietro a elaborarle. Spesso ci aggiungo elementi su elementi su elementi, così tanti che poi alla fine non mi ci ritrovo più, perché non prendo appunti, ché sono solo esercizi mentali di quando magari stai lavorando e invece hai voglia di divagare e essere da un'altra parte, e averci in mente storie è un buon modo per essere da un'altra parte. Mi dico di solito che "poi stasera a casa la metto giù". Poi la sera a casa invece sono troppo stanco per pensare, e quelle storie restano lì. E' un peccato. Sarebbero belle storie. Beh, almeno, finché le ho solo in testa di sicuro.

venerdì 30 marzo 2012

Una storia semplice

Ve ne racconto una. Lavoravo anni fa, era l'87/88, in una fabbrica piuttosto grande considerata la zona. Particolari auto, circa trecento dipendenti, lavoro su tre turni, quattro settimane di ferie ad agosto e una a fine anno, paga tutto sommato buona, straordinari pagati, maggiorazioni turno più che buoni, tutto a posto. Lavoro pesante, potete immaginare, ma tutto sommato ancora accettabile: possibilità di imparare qualcosa meno che zero, ma se ti accontentavi di fare la scimmietta in mezzo alle macchine utensili senza pensare a cosa facevi poteva andare benissimo. Verso il 93 0 il 94, non ricordo bene, la ditta va in crisi per colpa di alcuni investimenti sbagliati e comincia la trafila per noialtri operai: cassa integrazione, mobilità, insomma quelle cose lì. Per tutto il periodo della cassa integrazione ordinaria, quella dove tutto sommato non ci rimetti molto e che in genere è concordata un tot al mese a rotazione (coi sindacati), il sottoscritto è comandato a lavorare, nonostante avessi fatto presente che essendo ancora a casa con i genitori potevo anche permettermi di guadagnare di meno, e quindi, se volevano, potevano lasciar lavorare chi in teoria ne aveva più bisogno. Non volevano, o non c'era chi ne aveva bisogno, va a sapere.
C'è da dire a questo punto che all'epoca ero abbastanza un rompicoglioni, e non le mandavo a dire sulle cose che non andavano li dentro, tipo aumenti di produzione e robe simili (quindi, se all'epoca si fosse potuto licenziare per motivi finti economici in realtà disciplinari, di certo sarei stato messo alla porta, ma c'è da dire due cose: uno, non avrei pianto; due, me lo sarei meritato). Ma andiamo avanti. Quando scatta la cassa integrazione straordinaria, quella a zero ore dove guadagni parecchio meno, mi lasciano a casa tutto il tempo tranne le due settimane delle feste di natale (che combinazione!), poi vado in mobilità e non rivedo la fabbrica per oltre un anno. Nel frattempo la ditta viene acquistata da una cordata di soci ex impiegati dell' azienda stessa facendo un accordo con i sindacati e una banca locale (dello stesso paese del sindacalista che ci seguiva) dove sono girati i nostri crediti dell'inps e dove noi siamo in pratica obbligati ad aprire un conto. Probabile che fosse tutto legale, non mi interessa e non interessava a nessuno: l'importante all'epoca era salvare il posto di lavoro. Lo salvammo, e dopo un po' cominciarono a richiamare il personale lasciato a casa (tranne quelli prepensionati e quelli che nel frattempo avevano trovato altro). Io, che pure avevo trovato altro da fare, mi intestardii e aspettai il momento di rientrare: in pratica furono obbligati a riprendermi, perché non avrebbero potuto assumere gente nuova se prima non richiamavano tutti i vecchi ancora disponibili.
Prima della "crisi" lavoravo al tornio, due macchine manuali, due operazioni, un particolare finito. Quando rientrai avevano associato alle due macchine una macchina automatica (non scendo in dettagli: chi ha lavorato in fabbrica sa di cosa parlo), quindi quattro operazioni, due particolari finiti. Considerato che la produzione richiesta sulle manuali era stata abbassata di poco, in pratica nello stesso tempo gli facevamo quasi il doppio del lavoro, il tutto senza una lira di aumento.
Siccome ero un rompicazzo feci presente la cosa al responsabile sindacale, chiedendo che siccome stavamo rimettendo in piedi la baracca producendo quasi il doppio di prima allo stesso prezzo, che almeno ci fosse un ritorno per noi in busta paga. Il responsabile sindacale, che nel frattempo aveva fatto carriera passando da operaio a capoturno, quindi teneva sia le riunioni sindacali che quelle dirigenziali (un bel conflitto di interessi in piccolo), mi rispose che "da altre parti era pure peggio", che "ormai il lavoro anche in altre ditte era così", che "se vuoi stare sul mercato bisogna fare così", e "ancora grazie aver salvato il posto". La mia risposta fu restituire la tessera sindacale e cominciare ad attivarmi per andare via da lì.
Poi, vabbeh, è andata come è andata.

martedì 27 marzo 2012

Il Piave mormorava

Ma io poi ho tirato i remi in barca, nell'impossibilità di poterli tirare in testa a qualcuno. Troppi ce ne sarebbero voluti di remi, ché troppa gente lassù nei posti che contano se li sarebbero meritati sul cranio, ma il peggio è che pure in posti che non contano nulla ce ne è in abbondanza se non di più: a lasciar perdere faccio prima, dico io. Li ho tirati in barca un bel momento, qualche mese fa, quando a tanti sembrava stesse per splendere finalmente il sol dell'avvenire (per quegli strani misteri della sinistra italiana) perché il Bandana si era ritirato dalle scene, ma non dalle quinte. A me, come a tanti per fortuna, al di là della ovvia consolazione di essersi almeno levato dalle scatole il gran pagliaccio, era apparso abbastanza chiaro (da subito, ma pure da prima che cascasse: non ci credete?) che la situazione sarebbe molto probabilmente peggiorata. Ma poi, a pensarci bene, mi accorgo che a smettere di remare avevo cominciato già diverso tempo prima: arriva sempre un momento in cui ti rendi conto, solo che non lo sai ancora.
Dunque, dal mio punto di vista, la battaglia è perduta, hanno vinto, loro, le destre, i padroni, e tanti discorsi sono diventati inutili ed è una resa incondizionata la mia: fate quel che volete, cari Monti e Fornero e compagnia tecnica legiferante, ché a impedirvelo non ci penso nemmeno. Perché a questo punto è meglio che tutto vada beatamente in vacca, ma sul serio, e quando non rimarranno che macerie sarà l'occasione per poter ripartire, finalmente, forse, da altre basi.
Volete quindi abolire l'art.18, in maniera che un datore di lavoro può levarsi dalle scatole soggetti scomodi o solo antipatici senza che qualche giudice comunista intervenga a reintegrarlo? Bene, fatelo pure. Se in cambio mi date davvero un paio d'anni di mensilità accomodatevi, che problema c'è? Dubito che le cose stiano davvero così, che in realtà uno poi si ritrovi senza lavoro e senza indennizzo, ma va bene, va bene, nessun problema. Se poi in aggiunta davvero mi levate dalle scatole quelle forme di sfruttamento legalizzato che sono le finte partite iva e gli stage non retribuiti e tutte quelle formule contrattuali che negli anni sono state create anche e soprattutto da governi di centrosinistra, benissimo: accomodatevi, qui davvero vi ringrazio. Visto che la maggioranza delle persone è stata troppo fessa per fare i propri interessi, e dunque negli anni ha accettato e ancora continua ad accettare l'inaccettabile, pensateci voi e levategli finalmente l'alibi del padrone brutto e cattivo che vuole solo sfruttare il proprio dipendente (no, non guardate me, io chi mi ha proposto contratti da fame, due mesi non retribuiti, dieci ore di lavoro al giorno, li ho bellamente mandati a cacare, anche se ero disoccupato). Che tanto voi professori legiferanti lo sapete da tempo che noi dipendenti e loro datori di lavoro siamo sempre più simili e ci avviamo entrambi a mangiare la stessa merda, no?
Fate quel che volete dunque, andate alla sostanza delle cose, ogni tanto tocca farlo, pure se le vie scelte sono così incomprese (si parla tanto di decrescita: dove porta tutta 'sta roba, se non a quello? Certo noi ne immaginavamo di altro tipo, ma tant'è.....). Non vi preoccupate di noialtri, da queste parti non si è capaci di nulla se non badare alla forma, che tanto ci piace. Ci avete portati al Piave; noi ora come fessi scendiamo in trincea e poco importa se ci si lancerà anima e corpo nella difesa del Santo Principio che ormai tutela quattro gatti (è così, pensateci, purtroppo è così), evitando di lottare per altro. Per dire, io sciopero per sciopero, lotta per lotta, a questo punto chiederei, che ne so, tipo minimo quattrocento euro al mese di aumento in busta paga per tutti i lavoratori dipendenti, che sarebbe solo un modo per ripigliarsi una parte di quanto ci hanno rubato. Tanto, bisogna lottare no? E invece lottiamo per difendere il diritto a non essere licenziati per come gli gira (bello, giusto, sacrosanto, sì sì), e continuiamo pure a rimanere sottopagati. Che poi, magari la spuntiamo pure: tranquilli, lo salviamo l'art.18! E' per farne cosa che comincia a sfuggirmi.

lunedì 19 marzo 2012

Belleville

Che poi uno ritorna in ambienti da un pezzo lasciati da parte, si ritrova a respirare la stessa aria di un tempo, a girovagare tra montagne di carta stampata, a rifare discorsi molte volte intrapresi a parti invertite, e a riconoscere negli occhi di chi ci lavora la stessa illogica passione che aveva fatto a suo tempo compiere delle scelte. E un po' di nostalgia per quel mondo, devo ammetterlo, sale su.

sabato 10 marzo 2012

Dio è morto, Marx è morto, ora pure Moebius

Ricordo una sera a casa di amici giù nel cuneese, io che entro nella stanza mentre la televisione trasmette un servizio del tg regione. Sullo schermo stanno passando l'intervista a un personaggio riconosciuto solo da me. Dico, mentre mi inginocchio, "Zitti tutti, stanno intervistando Dio!". Era a Torino Jean Moebius Giraud, per non ricordo quale evento, e io non ne sapevo nulla, ma la cosa peggiore è che un paio di amici erano lì e non mi avevano avvisato che sarebbero andati a sentirlo. Giorgio sappilo: non ve l'ho mai perdonato.



venerdì 9 marzo 2012

Servi della gleba 2.0

Ecco, io da un po' di tempo ho uno scazzo addosso nel lavorare che sta raggiungendo livelli interplanetari, roba tipo distanza tra la Terra e Saturno andata e ritorno, il cui motivo sta principalmente nella mancanza di una prospettiva a medio e lungo termine che non sia il puro e semplice garantirmi una sopravvivenza sempre meno dignitosa, ché le spese aumentano ogni santo giorno mentre la paga base è ferma da anni, per cui vero che mi va di gran culo che non ho marmocchi da mantenere o ex mogli a carico da alimentare, ma mi girano di parecchio le balle proprio per questo motivo, perché uno dovrebbe avere il sacrosanto diritto di riuscire col suo lavoro a mantenere oltre se stesso pure una famiglia, valore e vanto dell'italica società per come l'abbiamo conosciuta finora. E dunque da un po' di tempo combatto la mattina con quella parte di me che rifiuta la sveglia, ed è una parte molto agguerrita, roba che la soneria gli fa un baffo a quella parte lì, pure se suona più e più volte svegliando tutti tranne quella parte di me che dovrebbe svegliarsi e prendere e alzarsi per recarsi a guadagnare il pane quotidiano e si spera anche un po' di companatico. Combatto, e finora vince il mio io responsabile perché alla lunga mi alzo e vado, ma non è che ci abbia tutta 'sta voglia di passare l'intera giornata a sbrigare pratiche inutili in un ufficio in cemento armato e vetri finestra (che regalano un delizioso effetto serra non appena due raggi di sole ci sbattono addosso -praticamente tutto il giorno-, coibentato così male che dal numero di bestemmie che quotidianamente vengono rivolte a chi lo ha progettato dubito che questo sia ancora in buona salute), dalle quali finestre vedo l'accattivante paesaggio composto da altri capannoni con le stesse dimensioni, caratteristiche e, immagino, stesse temperature interne del mio, e da un pezzo di tangenziale sempre piena di mezzi di locomozione d'ogni sorta. Distante, troppo distante, superando la coltre di smog intravvedo la catena delle alpi, sulle cui cime durante la giornata vado a rifugiarmi, ma solo con la mente, purtroppo.
Combatto dicevo, ché al mattino causa demotivazioni e incertezza nel futuro è sempre più pressante la tentazione di girarsi dall'altra parte e continuare a dormire, ma per il momento rimane più forte il senso di responsabilità verso ormai non si sa più bene cosa e dunque si va a lavorare, speranzosi in un avvenire che consenta prima o poi, e ci si augura prima, di lavorare meno a parità di salario, ché la vita è solo una e cose migliori da fare ce ne sarebbero tante, oppure di lavorare uguale ma guadagnando di più, in maniera da godersi prima o poi il frutto di tanta svendita del proprio preziosissimo tempo. Ma poi ti arriva uno come tale Ignazio Visco, Governatore della Banca d'Italia, e ti dice che bisogna "lavorare di più, in più e per più tempo", e la sensazione che ci abbiano veramente fottuti diventa una sconfortante certezza.
Urgono nuove strategie.

mercoledì 7 marzo 2012

Il mondo di fuori

1.
Odore di disinfettante, pungente, saturo d’aceto. Una donna in camice azzurro, bassa più del necessario, non bella, con fare meticoloso lava il pavimento del corridoio alla mia destra. Non risparmia né acqua né fatica. L’odore mi pizzica le narici, lo avverto forte, a ogni respiro entra e va giù, sempre più giù.
Oggi non avevo ancora fatto caso al mio respiro. Ero riuscito ad arrivare fino a quest’ora senza che il pensiero mi si focalizzasse sul respirare e adesso, per colpa di questa stupida donnetta e del suo vizio di spargere aceto dappertutto, sono obbligato a pensare al cavolo di respiro e se in me funziona correttamente. A ogni refolo d’aria che entra dalle narici deve corrispondere un altro refolo d’aria che deve uscire, in un movimento oscillatorio di prendere e lasciare che è bene non si interrompa mai. È così che sta andando, ma per un attimo non ne sono certo.
Pari. Il movimento deve essere pari. Una azione doppia, mai singola, perché ad una inspirazione deve corrispondere una espirazione. Necessaria. Vitale. Aria che entra e aria che esce. Aria, non aceto. Quella stupida donnetta dovrebbe smetterla di mettere così tanto detergente nel secchio. Imparare a diluire. Imparare anche a lavare, forse.
Mi guardo attorno. Devo spostare l’attenzione in qualche modo, così hanno detto: quando ti fissi su un particolare allarga la veduta e non pensare. E’ questo che devo fare, anche se il pensiero va a tutto l’aceto che mi sta entrando nei polmoni. Mi chiudo il naso tra le dita e respiro forte con la bocca. Aria meno pura mi entra dentro, l’odore è meno intenso. Respiro un po’ affannato.
Mi guardo attorno. Queste stanze sono tutte uguali, simili in tutti gli ospedali. Una fila di sedie in metallo laccato e formica bianca, addossate alle pareti bianche anch’esse. Macchie di umido agli angoli alti disegnano sfumature di grigio muffa. Non brutte da vedere, a guardarle con occhio distratto, meglio dei due manifesti reclame posti sul lato lungo di fronte a me.
Mi guardo attorno. Sono esattamente al centro della fila di sedie più numerosa, sette in tutto, tre alla mia destra e tre alla mia sinistra. Io al centro sono seduto e aspetto, con le narici tappate dalle dita per non sentire l’odore che si alza dal pavimento, per non far sì che il pavimento mi entri dentro. Una volta mi è successo, un po’ di tempo fa. Non era un pavimento, era solo terra. Bagnata, fradicia. Ci camminavo sopra da un bel po’. Mi sembrava una bella cosa camminare sotto la pioggia a piedi nudi sulla terra, con le scarpe in una mano e la valigetta nell’altra. L’odore di pioggia e erba e muschio era talmente forte che mi si infilò dentro e ci scivolai, fino a diventare terra io stesso. Una sensazione sgradevole di acqua e fango, giù, dentro me. Io fermo immobile in mezzo al prato, come una statua di legno che come legno assorbe. Non so quantificare quanto durò quella sensazione, abbastanza per spaventarmi. Da allora evito i prati sotto la pioggia e l’ho risolta così.
Mi guardo attorno. La donna in camice azzurro mi lancia occhiate furtive, me ne accorgo anche se finge di guardare altrove. Mi scruta, dal basso della sua veduta. Guarda anche dietro sé, nel corridoio appena lavato, a sincerarsi di protettive presenze che non la facciano restare sola a due metri di distanza da me, che sono seduto con le dita a tappare le narici esattamente in mezzo a una fila di sedie tutte uguali, in pantofole di pelle marrone col pigiama azzurro mare che si intravede sotto la lunga vestaglia da camera, bianca, aperta sul davanti. Forse teme che le tiri dietro una pantofola. L’ho già fatto, una volta, ma non a lei. Le voci in questo posto corrono veloci, si diffondono rapide, tutti sanno. Sanno di come ho lanciato la pantofola, la destra, verso l’infermiera grassa che mi cucina quel cibo schifoso tutti i giorni, da una distanza doppia rispetto a quella che mi divide ora dalla donnetta in camice azzurro. Sanno di come l’ho centrata nel pieno di quel suo volto grasso e molliccio, proprio sulla bocca da cui esce quella voce fastidiosa. Potrei rifarlo, se volessi. Potrei sfilare la pantofola dal mio piede destro e lanciarla a tutta forza verso la donna bassa che sparge troppo aceto nell’aria. Forse dovrei farlo, lo meriterebbe. Potrei farlo ma non voglio. Lo sguardo che lancio verso il camice azzurro che si muove tra acqua e aceto dice questo, come il sorriso che accompagna lo sguardo. La donna sparisce dietro il muro e sento solo lo sciabordio dello straccio nel secchio.
Mi volto a guardare di fronte, le dita tappano ancora le narici.
Aspetto.
Sì, avrei potuto farlo. Lanciare di nuovo qualcosa di mio addosso a qualcuno.
Non che sia una gran soddisfazione alla fine. E’ troppo il trambusto che segue quel gesto. Magari nel momento in cui la mano va a posarsi sulla suola della calzatura per sfilarla, in cui la mente già vede il percorso che farà qualche attimo dopo, quel gesto può sembrare liberatorio, un moto di energia che si propaga nell’aria fuoriuscendo da dove trabocca, ristabilendo per un attimo l’equilibrio. Ma è un attimo, appunto. Dopo sei solo uno con un pigiama azzurro mare e una pantofola in meno ai piedi, con un sacco di sguardi fissi addosso, più fastidiosi di quello che volevi scacciare, e magari tocca pure sentire parole parole parole e tutto il resto. Insomma, non ne vale molto la pena.
"Ecco”, mi dico mollando la presa delle dita e provando a far rientrare l’aria attraverso il naso, “sono guarito!”, ma il respiro mi sembra ancora troppo affannato, l’odore ancora troppo forte e l’attenzione ancora troppo rivolta verso quella parte di me che regola il flusso d’aria per essere guarito veramente. Chiudo gli occhi e ci provo, ad allargare la veduta, ma tutto ciò che riesco a fare in questo momento è richiudermi le narici, respirare forte con la bocca e, più che altro, aspettare, aspettare, aspettare.
La prima volta che sono venuto qui in questa stanza c’era più gente attorno a me. Non era una bella giornata. Io ero sempre seduto su questa sedia, esattamente a metà della parete, ma ai fianchi avevo mia madre da un lato e mio padre dall’altro. La simmetria era rovinata da mio fratello, ha un vero talento nel rovinare le simmetrie, lui. Stava in piedi di fronte alla finestra a sinistra, guardava fuori e moriva dalla voglia di fumare una delle sue stupide sigarette col filtro bianco: un elemento di disturbo in un quadro altrimenti perfetto. Ci aveva portati lui qui tutti quanti e il viaggio era stato piuttosto silenzioso, dopo tutto il baccano che lo aveva preceduto, poche indispensabili parole per tutto il tragitto, con lui che lasciava parlare le sue sigarette tutte bianche. Guidava silenzioso e fumava, con mio padre a fianco e io e mia madre seduti dietro. Lei aveva l’aria preoccupata, ma è tipico di mia madre avere l’aria preoccupata, mio padre invece sembrava più normale, forse rassegnato. Mio fratello sembrava scocciato. In effetti aveva dovuto prendere una mattinata libera dal lavoro per portarci tutti quanti in questo posto e la cosa lo disturbava, anche se non lo diceva apertamente. Più che altro fumava e dalla quantità di cicche spente potevi capire tutto il suo nervosismo nel dover fare quello che stava facendo. Che poi, non è che stesse facendo chissà cosa. Guidare un’automobile con tre passeggeri a bordo verso un ospedale alle dieci del mattino. Forse era scocciato per via che la mamma lo aveva svegliato nel cuore della notte a causa mia, ma allora la colpa era della mamma, non mia, e non capivo perché quando arrivò mi salutò a stento.
E’ sempre stato strano questo mio fratello. Bravo, niente da dire, e pure gran lavoratore. Parlava sempre poco, e la cosa mi piaceva molto, anche se in quel poco riusciva a smontare tutto quello che facevo. O che non facevo. Insomma, questo mio fratello sembrava fosse stato piazzato lì per qualche oscuro motivo a badare a tutte le faccende che mi riguardavano, e in tutte ci trovava qualcosa da ridire, e in tutte sembrava ci fosse sempre qualcosa da correggere. Un gran rompicoglioni, ad essere sincero.
L’attesa per il colloquio giornaliero con il medico che mi tiene in cura è molto fastidiosa. Nella stanza tutta bianca dove mi trovo non c’è nulla che possa permetterti di trascorrere il tempo senza dover pensare a te stesso, all’aceto e a come respiri. L’unica distrazione è data dai due manifesti sbiaditi appesi alla parete di fronte, ma li ho già letti tanto da sapere a memoria cosa c’è scritto, e non è che siano tanto interessanti. Di più: qualcosa in loro me li rende decisamente antipatici. Il primo è uno stupido poster di propaganda per la donazione del sangue, talmente vecchio che ricordo di averlo visto già parecchi anni addietro e che, ora che ci penso, non mi è mai piaciuto. Ci sono disegnati quattro scolaretti sorridenti dall’aria tutta per benino che fanno girotondo scambiandosi fiori rossi, e ognuno di loro reca sul grembiulino una scritta con quello che deve essere il proprio gruppo sanguigno, e una scritta in alto a destra chiede A che gruppo appartieni?, perché Saperlo può salvare la tua vita, e una scritta enorme in basso reca l’acronimo dell’associazione donatori, e allora il tutto è un modo che hanno questi donatori di far proseliti, immagino. Il tutto, scolaretti e scritte e domande, in un campo verde acido che disturba gli occhi. Sarebbe stato meglio un campo rosso a mio avviso, dato che parliamo di sangue, perché a me tutto l’insieme non richiama affatto il sangue, né mi spinge a donarlo, anzi tutto il contrario, perché gli scolaretti sono disegnati veramente male e sono troppo per benino e non mi ispirano nessuna simpatia. Mi ricordano certi compagni che avevo al tempo delle elementari, sempre ben vestiti e ordinati e col padre fuori in auto ad attendere. Anzi, ora che ci penso, uno di loro, quello biondo, mi ricorda quello che aveva detto alla maestra che io gli avevo rubato non so che merenda, e la maestra lo aveva detto alla direttrice, e la direttrice lo aveva detto a mia madre, e la notizia, dopo tutto questo passaggio femminile, era finita alle orecchie di mio padre e in ultimissimo passaggio alle sue sberle, maschilissime nonostante l’apparenza. Per cui se la mia vita non verrà salvata, non essendomi mai premurato di sapere a che gruppo sanguigno appartengo a causa della mia avversione verso le donazioni nata da una avversione verso uno stupido poster contenente messaggi che per me andavano oltre le scritte e i disegnini, ciò è a causa di una merenda mai rubata e soprattutto di uno stronzetto biondo col padre fuori in macchina ad aspettare.
L’altro poster mi è antipatico perché c’è il mare, e a me non piace il mare.
Potrebbero mettere qualche rivista. Uno potrebbe venire qua dentro, sedersi su una qualunque delle sedie tutte uguali e sfogliare una rivista. Gli impedirebbe certo di concentrarsi su inutili donnette in camice azzurro che spargono troppo detergente, sul detergente che sa troppo di aceto e di conseguenza sul funzionamento del proprio respiro. Ne guadagnerebbe, il respiro, se ci fosse una rivista a distrarre e non solo due inutili manifesti. Anche solo una di quelle stupide riviste mediche che abbondano nella stanza del dottore che mi ha in cura. Non sarebbe molto interessante neanche quella, ma uno passerebbe il tempo, lo ingannerebbe, si dice. Evidentemente in questo posto non sono ammessi inganni, verso nessuno, nemmeno verso entità immateriali. Peccato. Sarebbe stato un buon modo di trascorrere i minuti che passano dalla tua entrata in questa stanza tutta bianca e il momento in cui dovrai lasciarla per sederti di fronte a un signore in camice lungo, tutto bianco, e parlare.



2.



Il dottore ha la faccia scura. Una barba ispida e grigiastra gli ricopre metà del volto, con peli che gli arrivano fin sulle gote, quasi a ridosso di quei due occhietti piccoli e neri sormontati da sopracciglia troppo folte. Anche le mani sono pelose, troppo, e affusolate oltremisura. Brutte a vedersi: sbucando fuori dal bianco delle maniche appaiono come due enormi ragni in attesa di cibo. Non mi piacciono. Neanche lui mi piace, è troppo peloso: sbuffi neri e grigi di pelo che fuoriescono dappertutto. Dalle maniche, da dietro il collo, dal petto davanti! Tanto pelo superfluo è mitigato da una pelata lucida e tonda, quasi perfetta. Sembrerebbe che la natura abbia voluto bilanciare tanta abbondanza pilifera a scapito dei capelli, ma il tutto gli dona un’aria piuttosto ridicola. Fuma sigari toscani. Non qui naturalmente, ma l’ho visto un paio di volte giù in cortile e comunque l’odore di tabacco che emana è così forte che riesce a soffocare anche l’odore dell’aceto della donnetta troppo bassa. Non saprei dire quale è peggio. Forse l’aceto, a pensarci. Sarà che una volta anch’io fumavo, sigarette, poi sono entrato qua dentro e me ne sono dovuto dimenticare.
Ha uno strano modo di guardarmi, il dottore. Di sottecchi, non saprei dire. Comunque un po’ mi disturba. A volte quando mi soffermo sui suoi occhi troppo piccoli e troppo scuri mi viene voglia di tirargli addosso la prima cosa che mi capita, ma mi trattengo, non so bene perché. Forse per via che poi mi chiederebbe il motivo per cui gli ho lanciato addosso qualcosa, e non sono troppo sicuro del fatto che avere occhi troppo piccoli e troppo scuri sia un motivo bastante per riceversi cose addosso. Voglio dire, non è come per la donnetta dell’aceto o come per la donna grassa del cibo schifoso, che è evidente che se lo meritano che qualcuno gli lanci addosso qualcosa, ma per qualche strano motivo penso che anche lui se lo meriti. Almeno, così mi sembra.
I nostri colloqui avvengono da seduti, anche se avrei preferito che avvenissero come si vede in certi film, io sdraiato sul lettino e lui seduto dietro di me. Sarebbe stato meglio, penso. Più comodo. Avrebbe potuto anche fumare uno dei suoi sigari puzzolenti se proprio avesse voluto, non mi avrebbe dato fastidio. O forse sì. Forse l’odore del suo sigaro mi avrebbe costretto a concentrarmi sul respiro, a tapparmi le narici e a pensare ad altro come per l’aceto della donnetta troppo bassa, e allora è meglio che avvengano come ora, seduti, uno di fronte all’altro con una scrivania di mezzo come a un colloquio di lavoro: io che cerco la posizione meno imbarazzante, lui con i gomiti a bucare i braccioli, le mani pelose davanti al naso, le dita appoggiate le une contro le altre. Ogni tanto le apre e le chiude, ogni tanto le flette e le riallunga. Sembra un enorme ragno allo specchio.
Chiede cose, sempre le stesse. Io dico cose, sempre le stesse. D’altronde qui dentro non ci sono grosse novità, a meno che non lanci qualcosa contro qualcuno, e questo è da un po’ che non capita, e quello che è successo fuori di qui non lo si può più cambiare. Dico cose generiche, come sto, cosa penso, cose così. Ogni tanto il dottore peloso annuisce, ma più che altro mi guarda con quegli occhietti bui e mi ascolta. Non saprei dire quale di queste cose mi dà più fastidio.
Ripete diverse volte la parola “bene”. All’inizio pensavo che se ripeteva così tante volte la parola bene fosse perché le cose andavano davvero bene, ma poi mi sono accorto che la ripeteva anche quando le cose non andavano affatto bene, un po’ come quando ti chiedono come va? e tu per riflesso dici bene! anche se non va bene per niente e anzi spesso le cose vanno decisamente male, e allora ho smesso di farci caso e lascio che dia aria alla bocca in quel modo, se gli fa piacere.
Dopo un po’ il colloquio finisce, ultimamente è sempre più breve, e io mi ritrovo in piedi fuori dalla porta nella stanza tutta bianca piena di sedie tutte bianche.
Penso sempre, in quel momento, che forse avrei potuto dire di più. Fare come una volta, parlare, dire, spiegare. Perdere tempo a raccontare cose di me avvenute in anni remoti, pure le cose senza importanza, che anzi pare che siano proprio le cose senza importanza ad interessare maggiormente il dottore peloso dalle mani di ragno. Non so il motivo, o a cosa gli serva saperle. Io il nesso tra il fatto che a nove anni una volta piansi un giorno intero, perché ero convinto che mia madre fosse morta, e il trovarmi oggi qui dentro non riesco a trovarlo. In realtà non era affatto morta, era solo partita per andare da quella sua parente nell’altra città e non sarebbe tornata a casa quella sera, ma io ero convinto che fosse morta e che non volevano dirmelo. Comunque non gliene facevo una colpa, anzi, li perdonavo, mio padre e mio fratello. Pensavo fosse una bella cosa da parte loro preoccuparsi di non farmi sapere una cosa brutta come il fatto che la mamma fosse morta, e gli dicevo grazie, e loro non capivano perché insistessi in quelle domande su dove la avrebbero seppellita e su come avrei dovuto vestirmi per il funerale. Il tutto ovviamente in un mare di lacrime che però a un certo punto non distinsi più se fossero per la madre morta in quanto tale o se per la commozione di vedere me così emozionato e sensibile, seppure verso un qualcosa tanto triste come una madre morta. Dubbi non da poco, se proprio vogliamo andare a scavare, ma non è compito mio andare a scavare. Diciamo che dovrebbe essere il dottore peloso con le mani di ragno a scavare e trovare interpretazioni, semmai ce ne fossero. Invece lui si limita ad annuire e a dire bene. E allora bene, che devo fare?
Me ne sto lì, in piedi fuori dalla porta per qualche secondo, il tempo necessario a vedermi, per poi uscire via dalla stanza veloce, senza voltarmi.


3.


Non è semplice. Un giorno andava tutto bene e il ricordo dopo sono qui, davanti a una finestra chiusa, a guardare dai vetri sporchi la vita di fuori e a chiedermi perché sono qui dentro. Fanno quasi tre anni. Io ci ho pensato tante volte, al perché sono qui dentro. Qualche volta mi pare anche di capirlo, veramente, ma davvero non è semplice.
Non che mi manchi molto, la vita di fuori. Ogni tanto vengono mio padre e mia madre, e mi raccontano un sacco di cose. Cosa hanno fatto, cosa non hanno fatto. Tutte cose senza nessuna importanza. Sono sempre sorridenti quando vengono, ma io lo so che sono sorrisi provati ad arte. Sembra che si sentano in colpa per il fatto che mentre io me ne devo stare qui dentro a guardare il mondo di fuori da una finestra chiusa, loro invece in quel mondo ci possono vivere e muovere. In colpa per quella che ritengono una situazione più fortunata rispetto alla mia, e per questo sorridono forzato, e per questo sperano sempre che io esca da qui. Punti di vista.
Evitano come la peste ogni riferimento ai giorni che precedettero il mio arrivo qui, ma io lo so che quei giorni sono in cima ai loro pensieri. Più che altro si domandano il perché. Il perché, quello non lo hanno mai capito, e io non mi sono mai premurato di tentare di spiegarglielo: sono cose che ci devi arrivare da solo, penso. Comunque mi rendo conto che non è facile capire perché a un certo punto ho fatto quello che ho fatto, con tutte le conseguenze del caso, non solo per me. Oggi, di tutto quel baccano di parole e gesti e situazioni che precedettero il mio arrivo in questo posto, come conseguenza rimane che loro vivono fuori ed io vivo qua dentro, e ciò comporta silenzi da parte loro nel loro stupido mondo, e un senso di vergogna che li prende quando devono accennare a me. Ma non è che io abbia poi fatto chissà che di vergognoso. È di questo posto che si vergognano, e del fatto che un loro figlio ci viva dentro, e questo nonostante a quel loro figlio, cioè a me, la cosa sia del tutto indifferente, per cui non ci sarebbe proprio nulla di cui vergognarsi. Ma è opinione comune in quel loro mondo di fuori che questo sia un posto di cui vergognarsi, a maggior ragione se uno dei tuoi figli ci è finito dentro, e i miei sono gente a cui piace sentirsi a proprio agio nel mondo in cui fanno e non fanno cose, per cui si adeguano al pensiero corrente e dunque alla vergogna, vera o presunta non ha molta importanza. Ecco, io quando vengono a trovarmi e avverto in loro quel senso di vergogna gli lancerei addosso qualcosa, un po’ come feci quella sera che precedette la mia entrata in questo posto, non fosse che come per il dottore peloso dalle mani di ragno non sono troppo sicuro del fatto che se lo meritino. Quel mio fratello invece sì, che si merita che qualcuno gli lanci delle cose addosso, e l’ho anche fatto, l’ultima volta che è stato qui a trovarmi. Aveva preso in quel suo modo saccente e fastidioso a spiegarmi le cose, perché lui sa tutto capisce tutto ha in mano sempre le chiavi di tutto. Lui non ha mai avuto dubbi! Mai, neppure una volta! Le cose le ha capite da subito. Per dire, lui finite le medie disse voglio fare la scuola per geometri, e a chi gli chiedeva perché rispondeva che gli piacevano le case, per cui nessuno si stupì quando poi decise di diventare architetto e ancor meno si stupì quando davvero lo diventò e cominciò a costruirle, le case, tra l’altro pure belle devo dire. Insomma, in quelle poche parole dette a quindici anni lui aveva fatto tutto un discorso, prima a sé e poi agli altri, che lo vedevano proiettato in un futuro incanalato in una ben precisa direzione che lui aveva già bene in mente. Gli anni successivi gli erano serviti solo per mettere in pratica una cosa che già sapeva, oltre che per fare da esempio a me che invece a quindici anni nemmeno mi chiedevo cosa davvero mi piacesse, e tantomeno cosa mai avessi voluto fare da lì in avanti. E tutto questo esempio, vantato e indicato da genitori soddisfatti, di come si deve fare per viver bene nel mondo di fuori, a me non è mai piaciuto –mi dava la stessa sensazione del troppo aceto sui pavimenti- e non l’ho mai seguito, seppure in qualche parte di me deve essere andato a infilarsi, se è vero che a ogni mio fallimento torna su assieme alla voglia di lanciar cose addosso a qualcuno.
Il mondo di fuori. Io il mondo di fuori l’ho conosciuto, e per un sacco di tempo ne ho fatto anche parte. Facevo e non facevo le stesse cose senza importanza di cui raccontano i miei genitori quando vengono a trovarmi e che mi elencava quel mio fratello quando ancora ci veniva, prima che gli tirassi addosso quella bottiglia e lo facessi arrabbiare e gli facessi decidere che era il caso che non venisse più. Alcune di quelle cose le facevo perché credevo mi potessero piacere, altre perché quelle sono le cose che si fanno quando vivi una vita calato in quel mondo. E’ diverso da qui, non so spiegare. L’unica cosa che so è che a un dato momento tutto cominciò a sembrarmi come se a fare quelle cose fosse un altro. Mi vedevo fare e non fare cose e ne ridevo, tra me e me dapprima, poi ne ridevo e basta, sguaiatamente. E nello stesso tempo mi accorsi di come le cose, tutte, puzzassero di un odore pungente da levare il respiro, e che il più delle volte a spargere odori era chi mi stava attorno. I miei colleghi, in quell’ufficio con una sola finestra dove trascorrevo gran parte della giornata. I miei genitori, a casa, e quel mio fratello, quando veniva a trovarci. Tutti toccavano cose, calpestavano suoli, occupavano spazi che dopo poco cominciavano ad emettere odori soffocanti, che mi costringevano a tapparmi le narici, a concentrarmi sul respiro e a lanciare oggetti verso di loro, nel tentativo di mitigare la puzza, per non far sì che la puzza mi entrasse dentro. Andò avanti così per un po’, poi decisero che dovevo venire qui dentro, ma non è poi così male, qui dentro. Attorno a me gente che vive fuori di qui è indaffarata in cose che pensano abbiano un senso. Altra gente, che invece qui dentro ci vive, non si pone il problema e campa i propri giorni, all’apparenza tutti uguali. Anch’io vivo giorni all’apparenza tutti uguali. Parlo col dottore peloso dalle mani di ragno, passeggio dentro il caseggiato tra corridoi appena lavati da donne troppo basse, mangio il cattivo cibo servito da donne troppo grasse, guardo il mondo di fuori da una finestra troppo sporca, per ore ed ore.
Restare qui, alla finestra a guardar fuori, è la cosa che più mi piace. Sotto di me vedo la gente che passa, in auto, a piedi, da soli, in compagnia. Sono in tanti lì fuori. Li vedo fare cose, non fare cose, muoversi e andare verso direzioni che forse davvero conoscono bene e davvero è ciò che vogliono raggiungere. Come quel mio fratello. O forse sono come me, come ero io prima di avvertire gli odori, prima che lanciassi cose, prima di entrare qui dentro. Difficile dirlo, non è un mio problema, comunque mi piace il fatto di sapere che io posso stare a guardarli fare e non fare cose da qui, dalla finestra, senza dover fare e non fare le stesse cose io stesso. Giusto appoggiare, come ora, la fronte al vetro e lasciare che un sole pallido d’aprile mi scaldi la testa. E’ piacevole come sensazione.
Mi guardo attorno. Non è poi così brutto stare qui dentro, per quanto la donna grassa cucini veramente male e il dottore peloso dalle mani di ragno dica bene senza conoscerne davvero il significato. Si può sopportare. Spesso la donnetta bassa mette troppo detergente nel secchio saturando l’aria di aceto, e mi obbliga per questo a concentrarmi sul respiro, ma basta turarsi le narici e pensare ad altro: non è difficile, ormai so come fare. Per cui penso proprio che vorrei restare ancora qui, almeno per un po’. Per continuare a farlo mi basta poco. Mi basta parlare ogni giorno col dottore peloso, mangiare tutto quello che mi passano e ogni tanto lanciare qualcosa di mio addosso a qualcuno. Qualcuno che se lo meriti. In fondo lo si trova sempre. Basta guardare.