martedì 28 settembre 2010

La Penisola dei Famosi

La politica italiana ha compiuto il grande passo, unica al mondo credo, e si è trasferita armi e bagagli nell'universo mediatico, un luogo virtuale dove trova posto pure larga parte dell'informazione, tutti insieme appassionatamente a mettere in scena il grande spettacolo della vita pubblica. Ogni giorno si va in onda a reti divise eppure unificate in una escalation di puro nulla fatto di parole su parole, analisi di analisi, commenti dei commenti che comincia a colazione con le chiacchiere ancora assonnate su Omnibus e termina a notte fonda con l'insetto maculato a rimboccarci le coperte dall'ammiraglia della ex rete pubblica. In mezzo aggiornamenti, letture di quotidiani ormai già vecchi anche se usciti solo da qualche ora, commenti degli aggiornamenti, promo di ciò che verrà, interviste inutili, slogan ripetuti all'infinito, riepiloghi e riassunti delle puntate precedenti, messaggi video che sanno tanto di confessionale da Grande Fratello.
E' una telenovela, peggio, è un reality show, e neanche dei più riusciti. Nella Penisola dei Famosi i concorrenti sono sempre gli stessi, si avvicendano nelle cronache a seconda del momento, appaiono scompaiono per poi riapparire ancora, alla bisogna (vero, Uolter?). Altri personaggi, secondari, entrano ed escono, diventano protagonisti per qualche puntata, fanno la loro parte poi tornano nel dimenticatoio: chi parla più di Noemi Letizia, della Cricca, di Bertolaso, di Verdini? Sconfitti dal televoto, nell'universo mediacratico esiste solo chi ruba titoli di giornale e puntate televisive, esiste solo quello di cui si parla e tutto il resto rimane fuori. Disoccupazione, monnezza, corruzione, precariato, tangenti, evasione fiscale, debito pubblico, recessione, morti bianche non sono niente, voci fastidiose utili ogni tanto, quando le idee scarseggiano, quando i Protagonisti hanno bisogno di rifiatare e risistemare la sceneggiatura.
E noi in tutto questo, vi chiederete? Noi siamo come nella storiella qua sotto:

"Il più bel verso poetico nella storia di questo maledetto paese (Stati Uniti, nda) è stato pronunciato da Canada Bill Jones nel 1853, mentre al tavolo di una partita di faraone truccata veniva derubato fino alle mutande. George Devol, che come Canada Bill non era un uomo incapace di sgamare l'inganno, prese in disparte Bill e gli chiese se non si fosse reso conto che stavano barando. Canada Bill sospirò, scrollò le spalle e disse, -Lo so. Ma è l'unico tavolo da gioco della città.- E tornò a farsi spennare.

Neil Gaiman, American Gods ( Mondadori 2002)

4 commenti:

Bastian Cuntrari ha detto...

Questo tuo bellissimo post rende esattamente il senso di "frustrazione" di cui - giusto ieri sera - parlavamno io e mio marito con (mezzo) occhio al TG. Che ha anche un sapore di noia delle cose e delle parole, ma - come scrivi - questo povero Paese "è l'unico tavolo in città": citazione superba!

Rouge ha detto...

Grazie.

Vincenzo Cucinotta ha detto...

Bel post davvero, concordo totalmente con BC. Vedo che hai ripreso alal grande, si fa fatica a starti dietro, almeno io che posso dedicare ai blog poco tempo (e il mio ne prende la quasi totalità). Comunque, tenterò di venire qui più spesso.

Rouge ha detto...

@ Vincenzo: è solo un periodo, in realtà non ho molto da dire. Comunque sei sempre il benvenuto quando quel poco appare.