L’appuntamento è fissato per le nove di sera. Mancano ancora venti minuti ma sono già sul posto, in auto ad attendere. La strada è poco illuminata, dal finestrino alla mia destra si intravede la sagoma del grande stadio. Mi appare enorme. Quando vi giocai la prima volta, entrando mi tremavano le gambe. Il rumore della folla assiepata sugli spalti era assordante, ma io quasi non lo sentivo, concentrato com’ero a non cedere all’emozione.
Bella partita. Vincemmo.
Una coppietta si avvicina a passi lenti. Quando arrivano alla mia altezza non mi giro a guardarli. Sento lei che parla, non capisco di cosa. Di lui non sento nulla, solo il suono più pesante dei passi sul marciapiede. Si allontanano dietro di me, a sinistra. Quando la voce della donna smette di arrivarmi, li cerco nello specchietto. Lui ora è girato a guardare lo stadio. Lo vedo fare ancora due passi, poi prendere la rincorsa e calciare di sinistro. Il rumore della lattina colpita mi arriva chiaramente. Sorrido. E’ facile immaginare quello che ha pensato mentre tirava. Nessuno resiste alla tentazione di sentirsi per un secondo dentro quel campo, non i tifosi di calcio almeno. Chissà se mi ha mai visto giocare.
L’uomo arriva con alcuni minuti di ritardo. Ha una bella auto. Parcheggia a diversi metri da dove mi trovo. Scendendo si guarda attorno, poi si muove deciso verso di me. Una gamba gli cede leggermente, dandogli una camminata buffa, oscillante.
Entrando nella mia macchina non mi saluta, viene subito al dunque.
- Allora, cosa hai deciso, ti sei convinto?
Il mio sì ha un sapore liberatorio.
Quanti ne abbiamo dalla nostra? Chiede.
- Sei. In tutto siamo in sei, due per reparto.
-Bene. Bravo. Sapevo che avresti preso la decisione giusta. Sai, i ragazzi temevano che tu potessi fare qualche scherzo. Ho dovuto faticare per trattenerli. Li conosci, non hanno molta pazienza. Sono giovani. Rivogliono sempre tutto e subito, non capiscono che a volte aspettare è un bene. Non sanno fare gli affari.
- Tu si, invece.
Fa un sorrisino, quasi a compiacersi.
- Lo facciamo tutti.
Esce dalla macchina, mi raccomanda di dare il massimo. Poi se ne va. Zoppicando.
Scendo a prendere una boccata d’aria e mi soffermo a guardare lo stadio. E’ una serata piuttosto afosa. L’estate è arrivata prima, quest’anno. Quando ancora ero titolare, non troppo tempo fa, pativo il caldo. Mi tagliava le gambe. Una volta giocammo in una città del sud, era l’ultima di campionato, o la penultima forse. Faceva talmente caldo che dalla panchina ci lanciavano sacchetti di ghiaccio per rinfrescarci. Ne ingoiai tanto che dovetti farmi sostituire per una congestione. Forse vincemmo. Non ricordo.
Risalgo in macchina e guido verso casa.
Accendo una sigaretta. Ho sempre fumato, anche nei ritiri, di nascosto. Segnavo tanto, e i mister chiudevano un occhio. Per qualche anno ho smesso, faceva incazzare i miei allenatori, dicevano che perdevo il fiato. Poi sono finito in panchina e ho ripreso il vizio.
Da un paio di stagioni le partite le seguo quasi sempre dalla panchina. Anche quest’anno fino a gennaio non ho giocato molto, poi l’attaccante titolare si è rotto e hanno dovuto rispolverare il vecchietto.
Ho ripreso anche l’altro vizio, di fare gol. Non ne facevo così tanti dall’anno dell’ultimo scudetto, sei anni fa. In tutte le maniere. Di sinistro ma anche di testa, tanti. E pure uno di destro, che non è mai stato il mio piede: una ciabattata a fil di palo, che si è infilata lenta in rete. Un gol pesante, in trasferta, su un campo dove non vincevamo da vent’anni e che è valso la testa della classifica.
Questa domenica si decide tutto. Abbiamo un solo punto di vantaggio sulla seconda ma siamo favoriti: giochiamo in casa, contro una squadra già retrocessa. Gli altri invece sono in trasferta contro una che si gioca un posto in Europa. Tutti scommettono sulla nostra vittoria finale.
Perderemo il titolo invece, così abbiamo deciso in sei. L’altra partita è già stata combinata: i nostri rivali vinceranno in trasferta. A noi basterà non vincere la nostra gara.
Ha ragione lo zoppo, facciamo tutti un affare: loro vinceranno un sacco di soldi scommettendo giusto, i miei compagni intascheranno più che col premio scudetto, a me condoneranno i debiti e manterrò intatta la pelle.
Eva mi aspetta a casa con una certa impazienza. Non faccio in tempo ad entrare che mi chiede come è andata. Bene, è andata bene, è tutto combinato.
Annuisce nervosa, va a versarsi da bere, si siede sul divano di pelle marrone. Non mi sembra troppo sollevata dalla notizia. Sa con chi abbiamo a che fare, conosce i rischi. Ha l’aria stanca, di chi ha pensato troppo.
E’ stata lei ad introdurmi in quell’ambiente. Io prima giocavo a carte in circoli ristretti di persone. Perdevo spesso, a volte vincevo, ma giocavo solo per il gusto di giocare. Non avevo bisogno di troppi soldi, ero ricco. Segnavo tanti gol ed a ogni stagione il mio ingaggio cresceva. Avevo quello che volevo: belle case, belle macchine, belle donne soprattutto. Andavo di moda, facevano a gara per passare una notte con me. Lei si intrufolò nel mio letto senza che me ne accorgessi, era una delle tante. Parlava poco l’italiano, era arrivata dall’est da non molto. Mi accalappiò e la lasciai fare. Mi piaceva, mi piace ancora. La sua bellezza è stata il lasciapassare per intromettersi nella mia vita e poi aveva i miei stessi vizi.
Questi suoi amici, suoi connazionali, avevano messo su un circolo clandestino in cui poter giocare e perdere grosse somme. Si giocava in begli ambienti, in cui girava di tutto, donne, alcool, droghe: divertimento assicurato. Il mio rendimento in campo andava male, ero stato messo in panchina, avevo bisogno di divertirmi. All’inizio stranamente vincevo e tutto andava bene: anche se in campo ormai andavo poco, fuori le cose continuavano a girare alla grande. Puntavo pesante, cominciai a perdere. Fare debiti con la mala non è molto saggio, ma la saggezza non è mai stata un mio pregio e d’altronde anche la stampa sportiva mi aveva appiccicato l’etichetta dell’irruento. Per questo giocavo bene, per questo segnavo tanto.
Mi verso da bere anch’io e siedo vicino a lei.
Andrà tutto bene, perderemo, ci lasceranno in pace.
Alcune ore prima della partita la squadra fa un sopralluogo del campo. Ci siamo riuniti prima questa volta, il mister ci vuole concentrati.
I giornali hanno montato l’attesa in maniera esemplare. Nei giorni scorsi ho rilasciato dichiarazioni in cui ho mantenuto il mio ruolo: “Ormai lo scudetto è nostro”. “Mi piacerebbe segnare il gol vittoria, ma l’importante è che la squadra sia unita e giochi bene”. “Il singolo non conta”. “La nazionale? Certo, ci penso, ma lasciamo decidere il C.T.”.
Alcuni tifosi, fuori lo stadio, mi hanno chiesto autografi, mi hanno incitato. Si sono sincerati delle nostre condizioni, si aspettano la vittoria. Li ho rassicurati. Ho rassicurato anche i miei cinque compagni. Sono tutti un po’ avanti con gli anni, come me. Ancora una stagione, massimo due, poi il gioco è finito. Carriera breve la nostra, bisogna pensare al futuro. E poi non è la prima volta che vendiamo una partita. Non valevano il campionato certo, ma una partita è solo una partita, novanta minuti.
Guardo il campo. E’ leggermente allentato, stanotte è piovuto. L’erba è ancora umida ma ora c’è un bel sole. Farà caldo, oggi.
Mi sono chiesto spesso cosa mi piaceva del calcio. Non è per il gioco in sé, che a pensarci è anche stupido, o per i tanti soldi che si possono guadagnare. Neanche per la notorietà che ti dona, con la gente che ti ferma per strada. Anzi, è pure fastidioso.
Del calcio credo mi piacciano quei riti che si consumano negli spogliatoi, prima delle partite. L’armadietto, cambiarsi, allacciarsi gli scarpini. Il ripetere quei gesti sempre allo stesso modo, con superstizione. L’odore della canfora che impregna tutto l’ambiente. Lo spogliatoio dopo la partita, con quel misto di sudore e vapori di doccia. Gli scherzi dei compagni, l’atmosfera dei ritiri. Sono certo che tutto questo mi mancherà una volta appese le scarpe al chiodo.
Mentre mi cambio cerco con lo sguardo i miei complici. Sembrano tranquilli. Tutti gli altri compagni si caricano a vicenda, pregustano il trionfo. Per tutti loro sarebbe il primo vero successo in una competizione e sono tutti eccitatissimi.
Usciamo dal tunnel che immette in campo e il boato della folla ci arriva come una cannonata. Lo stadio è stracolmo di gente che urla slogan di incitamento. Ognuno di loro porta addosso i colori della squadra, sciarpe e bandiere si agitano al sole facendo dell’intero stadio un catino ribollente.
Cerco nelle tribune volti noti e li trovo. Eva è venuta da sola, lo zoppo è a pochi metri da lei. Sono venuti tutti a sincerarsi che le cose filino lisce.
Io sono tranquillo: giochiamo contro una squadra che questa stagione non ha impensierito nessuno. Basterà non impegnarsi più di tanto, evitare di segnare. L’ideale sarebbe se loro vincessero, ma basterà che non vinciamo noi, sono sicuro che chi si contende il titolo con noi, sull’altro campo, farà il suo dovere fino in fondo, portando a casa il risultato.
Perderemo il titolo. Sarà stata solo una giornata storta. A volte capitano.
La gara ha inizio.
Per tutto il primo tempo non succede nulla. Alcune buone azioni nostre, un paio di tiri miei poco convinti, il risultato che non si sblocca, le porte che restano inviolate. Noi sei facciamo la nostra parte sbagliando più del dovuto. L’allenatore impreca in panchina, il pubblico incita sempre. Per il momento siamo ancora noi i campioni, ma c’è tempo.
Durante l’intervallo, nel sottopassaggio per gli spogliatoi, vengo avvicinato da Eva, mischiata tra i giornalisti. Non dice nulla ma intuisco le sue preoccupazioni. Le sorrido, a farle intendere che va tutto bene. Devo rassicurare anche un mio compagno, preoccupato del fatto che non arrivano segnali dall’altro campo. Gli dico di stare calmo. L’accordo è che noi non dobbiamo vincere, punto e basta. Quello che succede nell’altra partita non ci interessa.
Poi vado sotto la doccia e ci sto praticamente tutto il tempo della pausa. Mentre sento l’acqua scorrermi addosso ripenso agli ultimi avvenimenti, ai debiti, alle minacce. Non potevo fare nient’altro. Me lo ripeto, a convincermi, più di una volta.
Quando esco gli altri stanno già rientrando in campo, solo una persona, il magazziniere, è ancora nello spogliatoio. Sta ritirando le tenute sudate del primo tempo.
Il magazziniere Paolini è una di quelle figure che si trovano solo in certi ambienti. E’ molto anziano, nella squadra da una vita. Era già qui quando arrivai, a fare già quello che fa ancora oggi, a prendersi cura delle tenute, curare le scarpette, lucidandole e ammorbidendole con cura. A pensare ai tacchetti, consigliando quelli giusti ai più giovani e meno esperti. Soprattutto a stare vicino alla squadra, cogliendone gli umori, incitando e sostenendo quando è il caso.
Negli anni gli allenatori sono andati e venuti, i giocatori anche, ancora di più. Lui è sempre rimasto qui, come lo stadio stesso. Chiuso nel suo gabbiotto, a catalogare e pulire. E a ricordare.
Ricorda i numeri di scarpa di tutti quelli che hanno giocato nella squadra, i loro vezzi, le loro manie. Tutti gli umori, tutte le vittorie, tutte le sconfitte. Ricorda tutti quelli che sono passati di qui, i campioni ed i brocchi, anche quelli che hanno giocato una sola stagione: per lui sono stati comunque della squadra e questo basta a renderli parte di un qualcosa che solo lui percepisce.
E’ lui, a pensarci, la vera anima di questa squadra. Non chi gioca, non la dirigenza. Nemmeno i tifosi, che pure gli somigliano, possono esserlo. Lui sembra sapere qualcosa che agli altri è negato. A volte, da quello che dice, sembra l’anima del calcio stesso.
E’ stato anche un discreto mediano, da giovane.
Oggi è euforico. Incita tutti, per ognuno ha una parola, un dettaglio da ricordare, un ricordo da regalare. Per avvicinarli a quel tutto che lui solo conosce. Erano anni che non lo vedevo così, dall’ultimo scudetto. Mi chiede:
- Te lo ricordi il primo?
Lo guardo senza rispondere. Mi incammino verso il terreno di gioco.
Sì. Me lo ricordo il primo. Avevo diciannove anni, provenivo dalla serie B. Segnavo tanto già allora, dieci gol in quindici partite, contributo determinate per la conquista del titolo. Dopo ne sono venuti altri, più qualche coppa. Ho avuto una bella carriera, tutto sommato.
Il secondo tempo si avvia ad essere la fotocopia del primo. Aspettiamo. La squadra si batte comunque bene, creando occasioni da gol che noi sei della combine sprechiamo malamente. In fondo è facile: passaggi sbagliati, fuorigioco, tiri sbilenchi. Basta non dare il massimo. E’ alquanto irritante, perché i nostri avversari sono davvero modesti e facciamo fatica a trattenerci. Io poi faccio una fatica bestiale per permettere al difensore che mi controlla di marcarmi a dovere. Gli sto facendo fare una gran bella figura, facendomi anticipare spesso.
Al quindicesimo arriva la notizia del vantaggio della nostra rivale sull’altro campo. Ora i Campioni sono loro e lo stadio ammutolisce. La nostra panchina si sbraccia e strepita. I compagni che non sanno nulla dell’accordo si impegnano ancora di più.
Al ventesimo arriva mio malgrado una buona occasione: un lancio smarcante sulla sinistra, il mio controllore inciampa e non posso fare altro che dirigermi verso la porta palla al piede. Sparacchio un tiro che va abbondantemente sopra la traversa. L’ho fatto apposta, ovviamente, ma non sembrerebbe.
Il nostro pubblico non ha smesso di incitarci, ma è meno convinto, piuttosto attonito. Rumoreggia sui tanti palloni sprecati. Le imprecazioni si sentono anche dal campo.
Spesso con lo sguardo mi rivolgo verso la tribuna: a vedere da qui lo zoppo sembra soddisfatto del lavoro che stiamo facendo. Immagino stia già contando i soldi che intascherà.
Un compagno mi urla qualcosa che dovrebbe servire a svegliarmi. E’ di quelli che non sanno nulla, non capisce come faccio a sbagliare palloni tanto facili.
La farsa continua. Il mio controllore è decisamente una schiappa, in condizioni normali gli andrei via praticamente sempre. Invece ritardo sempre quell’attimo che gli permette di recuperarmi, dandogli modo di levarmi la palla.
Fila tutto liscio fino alla mezzora, poi uno dei nostri viene atterrato in area ed è calcio di rigore.
Mi incarico di tirarlo. Uno dei compagni corrotti, un difensore, si raccomanda. Veramente tutti si raccomandano, solo che lui si raccomanda al contrario.
Tiro il rigore, facendo il contrario di quello che si dovrebbe fare: aspetto di vedere da che parte si butta il portiere e tiro verso quella parte. Il numero uno avversario si ritrova il pallone in braccio ed esulta. Faccio finta di essere disperato, mettendomi le mani nei capelli.
I fischi mi sommergono, io resto fermo in mezzo all’area e mi guardo attorno: mi giro verso la tribuna e vedo lo zoppo applaudire ridendo; vedo il mio controllore abbracciare il suo portiere, i miei compagni venire verso di me e nonostante tutto incoraggiarmi. Sento il rumore dello stadio, le imprecazioni dei tifosi. Immagino cosa stia succedendo ora, in questo momento, sull’altro campo, dove le radio avranno già dato la notizia. Vedo i tifosi che esultano e i giocatori in festa.
Mi giro verso la nostra panchina:, l’allenatore si sbraccia ed urla ordini, tutti si agitano e bestemmiano, solo Paolini resta immobile al suo posto e mi guarda. Mi guarda e basta. Per un lungo, interminabile istante, i nostri sguardi si incrociano. Poi scuote la testa.
Riprendiamo a giocare. Manca un quarto d’ora alla fine, non è ancora finita.
Nei minuti successivi il mio controllore riesce davvero a marcarmi. Ora non faccio finta di giocare, qualcosa è cambiato. Mi accorgo che sto davvero giocando a calcio.
Dopo il rigore collezioniamo tre calci d’angolo. Su uno di testa mando di poco fuori a lato. Un mio compagno, uno dei centrocampisti corrotti, si avvicina a dirmi qualcosa.
– Occhio, c’è mancato poco.
Lo so, rispondo.
Nonostante il mio impegno tardivo il tempo scorre senza che accada nulla: siamo già a tre minuti dalla fine e ancora pareggiamo. Ormai, nonostante tutto, penso sia finita.
Ma poi… poi mi lanciano di nuovo sulla sinistra.
Un lancio lungo, dalla trequarti, smarcante. Questa volta il mio avversario non inciampa, anzi, sono io che con una finta gli vado via e corro dietro al pallone. Attorno a me, sugli spalti, tutti si alzano a seguire l’azione e vedono me palla al piede dirigermi verso la porta avversaria.
Mi accentro. Un terzino mi si fa incontro ed io rallento per vedere le sue intenzioni. Tenta un tackle, ma riesco ad evitarlo, saltandolo.
Ora sono solo, di fronte alla porta, a pochi metri dal limite dell’area.. Dietro di me, distante alcuni passi, sento il respiro affannato di chi mi insegue, oltre la porta intravedo le macchie scure dei fotografi e dei raccattapalle. La porta invece la vedo chiaramente, con la sua rete tutta bianca e il portiere in mezzo. Fa per uscire dai pali e mi viene incontro.
Entro in area. Faccio ancora un paio di passi, palla al piede. Il portiere si prepara al mio tiro, fermandosi di scatto, ginocchia piegate e braccia leggermente aperte. Alzo la testa per controllare la sua posizione, scarto leggermente a sinistra.
E poi calcio.
Un tiro forte, potente, dei miei. Di sinistro. Un collo pieno che supera il mio avversario, sfiora appena il palo e si infila nella rete, gonfiandola.
C’è un attimo di silenzio assoluto, un brevissimo istante che forse solo io noto, tra il momento in cui tiro con tutta la potenza che ho e la consapevolezza di aver segnato.
Poi il fragore mi inonda. Un unico enorme urlo accompagna la mia corsa a braccia alzate.
Corro a perdifiato, per tutto il campo, con i compagni che mi inseguono e urlano come me. Anche quelli della combine, urlano anche loro. Vengo raggiunto e sommerso dagli abbracci. La folla è in delirio e noi con lei, lo stadio sembra debba scoppiare da un momento all’altro, in un agitare di colori e di urla.
Ho ancora le braccia al cielo quando butto lo sguardo verso la tribuna. Lo zoppo è sempre seduto al suo posto, ma non sorride più.La poltrona che era occupata da Eva invece, è vuota. Di lei intravedo la sagoma che si allontana verso l’uscita.
Tiro giù le braccia e sorrido verso la panchina.
Abbiamo vinto.
Bella partita. Vincemmo.
Una coppietta si avvicina a passi lenti. Quando arrivano alla mia altezza non mi giro a guardarli. Sento lei che parla, non capisco di cosa. Di lui non sento nulla, solo il suono più pesante dei passi sul marciapiede. Si allontanano dietro di me, a sinistra. Quando la voce della donna smette di arrivarmi, li cerco nello specchietto. Lui ora è girato a guardare lo stadio. Lo vedo fare ancora due passi, poi prendere la rincorsa e calciare di sinistro. Il rumore della lattina colpita mi arriva chiaramente. Sorrido. E’ facile immaginare quello che ha pensato mentre tirava. Nessuno resiste alla tentazione di sentirsi per un secondo dentro quel campo, non i tifosi di calcio almeno. Chissà se mi ha mai visto giocare.
L’uomo arriva con alcuni minuti di ritardo. Ha una bella auto. Parcheggia a diversi metri da dove mi trovo. Scendendo si guarda attorno, poi si muove deciso verso di me. Una gamba gli cede leggermente, dandogli una camminata buffa, oscillante.
Entrando nella mia macchina non mi saluta, viene subito al dunque.
- Allora, cosa hai deciso, ti sei convinto?
Il mio sì ha un sapore liberatorio.
Quanti ne abbiamo dalla nostra? Chiede.
- Sei. In tutto siamo in sei, due per reparto.
-Bene. Bravo. Sapevo che avresti preso la decisione giusta. Sai, i ragazzi temevano che tu potessi fare qualche scherzo. Ho dovuto faticare per trattenerli. Li conosci, non hanno molta pazienza. Sono giovani. Rivogliono sempre tutto e subito, non capiscono che a volte aspettare è un bene. Non sanno fare gli affari.
- Tu si, invece.
Fa un sorrisino, quasi a compiacersi.
- Lo facciamo tutti.
Esce dalla macchina, mi raccomanda di dare il massimo. Poi se ne va. Zoppicando.
Scendo a prendere una boccata d’aria e mi soffermo a guardare lo stadio. E’ una serata piuttosto afosa. L’estate è arrivata prima, quest’anno. Quando ancora ero titolare, non troppo tempo fa, pativo il caldo. Mi tagliava le gambe. Una volta giocammo in una città del sud, era l’ultima di campionato, o la penultima forse. Faceva talmente caldo che dalla panchina ci lanciavano sacchetti di ghiaccio per rinfrescarci. Ne ingoiai tanto che dovetti farmi sostituire per una congestione. Forse vincemmo. Non ricordo.
Risalgo in macchina e guido verso casa.
Accendo una sigaretta. Ho sempre fumato, anche nei ritiri, di nascosto. Segnavo tanto, e i mister chiudevano un occhio. Per qualche anno ho smesso, faceva incazzare i miei allenatori, dicevano che perdevo il fiato. Poi sono finito in panchina e ho ripreso il vizio.
Da un paio di stagioni le partite le seguo quasi sempre dalla panchina. Anche quest’anno fino a gennaio non ho giocato molto, poi l’attaccante titolare si è rotto e hanno dovuto rispolverare il vecchietto.
Ho ripreso anche l’altro vizio, di fare gol. Non ne facevo così tanti dall’anno dell’ultimo scudetto, sei anni fa. In tutte le maniere. Di sinistro ma anche di testa, tanti. E pure uno di destro, che non è mai stato il mio piede: una ciabattata a fil di palo, che si è infilata lenta in rete. Un gol pesante, in trasferta, su un campo dove non vincevamo da vent’anni e che è valso la testa della classifica.
Questa domenica si decide tutto. Abbiamo un solo punto di vantaggio sulla seconda ma siamo favoriti: giochiamo in casa, contro una squadra già retrocessa. Gli altri invece sono in trasferta contro una che si gioca un posto in Europa. Tutti scommettono sulla nostra vittoria finale.
Perderemo il titolo invece, così abbiamo deciso in sei. L’altra partita è già stata combinata: i nostri rivali vinceranno in trasferta. A noi basterà non vincere la nostra gara.
Ha ragione lo zoppo, facciamo tutti un affare: loro vinceranno un sacco di soldi scommettendo giusto, i miei compagni intascheranno più che col premio scudetto, a me condoneranno i debiti e manterrò intatta la pelle.
Eva mi aspetta a casa con una certa impazienza. Non faccio in tempo ad entrare che mi chiede come è andata. Bene, è andata bene, è tutto combinato.
Annuisce nervosa, va a versarsi da bere, si siede sul divano di pelle marrone. Non mi sembra troppo sollevata dalla notizia. Sa con chi abbiamo a che fare, conosce i rischi. Ha l’aria stanca, di chi ha pensato troppo.
E’ stata lei ad introdurmi in quell’ambiente. Io prima giocavo a carte in circoli ristretti di persone. Perdevo spesso, a volte vincevo, ma giocavo solo per il gusto di giocare. Non avevo bisogno di troppi soldi, ero ricco. Segnavo tanti gol ed a ogni stagione il mio ingaggio cresceva. Avevo quello che volevo: belle case, belle macchine, belle donne soprattutto. Andavo di moda, facevano a gara per passare una notte con me. Lei si intrufolò nel mio letto senza che me ne accorgessi, era una delle tante. Parlava poco l’italiano, era arrivata dall’est da non molto. Mi accalappiò e la lasciai fare. Mi piaceva, mi piace ancora. La sua bellezza è stata il lasciapassare per intromettersi nella mia vita e poi aveva i miei stessi vizi.
Questi suoi amici, suoi connazionali, avevano messo su un circolo clandestino in cui poter giocare e perdere grosse somme. Si giocava in begli ambienti, in cui girava di tutto, donne, alcool, droghe: divertimento assicurato. Il mio rendimento in campo andava male, ero stato messo in panchina, avevo bisogno di divertirmi. All’inizio stranamente vincevo e tutto andava bene: anche se in campo ormai andavo poco, fuori le cose continuavano a girare alla grande. Puntavo pesante, cominciai a perdere. Fare debiti con la mala non è molto saggio, ma la saggezza non è mai stata un mio pregio e d’altronde anche la stampa sportiva mi aveva appiccicato l’etichetta dell’irruento. Per questo giocavo bene, per questo segnavo tanto.
Mi verso da bere anch’io e siedo vicino a lei.
Andrà tutto bene, perderemo, ci lasceranno in pace.
Alcune ore prima della partita la squadra fa un sopralluogo del campo. Ci siamo riuniti prima questa volta, il mister ci vuole concentrati.
I giornali hanno montato l’attesa in maniera esemplare. Nei giorni scorsi ho rilasciato dichiarazioni in cui ho mantenuto il mio ruolo: “Ormai lo scudetto è nostro”. “Mi piacerebbe segnare il gol vittoria, ma l’importante è che la squadra sia unita e giochi bene”. “Il singolo non conta”. “La nazionale? Certo, ci penso, ma lasciamo decidere il C.T.”.
Alcuni tifosi, fuori lo stadio, mi hanno chiesto autografi, mi hanno incitato. Si sono sincerati delle nostre condizioni, si aspettano la vittoria. Li ho rassicurati. Ho rassicurato anche i miei cinque compagni. Sono tutti un po’ avanti con gli anni, come me. Ancora una stagione, massimo due, poi il gioco è finito. Carriera breve la nostra, bisogna pensare al futuro. E poi non è la prima volta che vendiamo una partita. Non valevano il campionato certo, ma una partita è solo una partita, novanta minuti.
Guardo il campo. E’ leggermente allentato, stanotte è piovuto. L’erba è ancora umida ma ora c’è un bel sole. Farà caldo, oggi.
Mi sono chiesto spesso cosa mi piaceva del calcio. Non è per il gioco in sé, che a pensarci è anche stupido, o per i tanti soldi che si possono guadagnare. Neanche per la notorietà che ti dona, con la gente che ti ferma per strada. Anzi, è pure fastidioso.
Del calcio credo mi piacciano quei riti che si consumano negli spogliatoi, prima delle partite. L’armadietto, cambiarsi, allacciarsi gli scarpini. Il ripetere quei gesti sempre allo stesso modo, con superstizione. L’odore della canfora che impregna tutto l’ambiente. Lo spogliatoio dopo la partita, con quel misto di sudore e vapori di doccia. Gli scherzi dei compagni, l’atmosfera dei ritiri. Sono certo che tutto questo mi mancherà una volta appese le scarpe al chiodo.
Mentre mi cambio cerco con lo sguardo i miei complici. Sembrano tranquilli. Tutti gli altri compagni si caricano a vicenda, pregustano il trionfo. Per tutti loro sarebbe il primo vero successo in una competizione e sono tutti eccitatissimi.
Usciamo dal tunnel che immette in campo e il boato della folla ci arriva come una cannonata. Lo stadio è stracolmo di gente che urla slogan di incitamento. Ognuno di loro porta addosso i colori della squadra, sciarpe e bandiere si agitano al sole facendo dell’intero stadio un catino ribollente.
Cerco nelle tribune volti noti e li trovo. Eva è venuta da sola, lo zoppo è a pochi metri da lei. Sono venuti tutti a sincerarsi che le cose filino lisce.
Io sono tranquillo: giochiamo contro una squadra che questa stagione non ha impensierito nessuno. Basterà non impegnarsi più di tanto, evitare di segnare. L’ideale sarebbe se loro vincessero, ma basterà che non vinciamo noi, sono sicuro che chi si contende il titolo con noi, sull’altro campo, farà il suo dovere fino in fondo, portando a casa il risultato.
Perderemo il titolo. Sarà stata solo una giornata storta. A volte capitano.
La gara ha inizio.
Per tutto il primo tempo non succede nulla. Alcune buone azioni nostre, un paio di tiri miei poco convinti, il risultato che non si sblocca, le porte che restano inviolate. Noi sei facciamo la nostra parte sbagliando più del dovuto. L’allenatore impreca in panchina, il pubblico incita sempre. Per il momento siamo ancora noi i campioni, ma c’è tempo.
Durante l’intervallo, nel sottopassaggio per gli spogliatoi, vengo avvicinato da Eva, mischiata tra i giornalisti. Non dice nulla ma intuisco le sue preoccupazioni. Le sorrido, a farle intendere che va tutto bene. Devo rassicurare anche un mio compagno, preoccupato del fatto che non arrivano segnali dall’altro campo. Gli dico di stare calmo. L’accordo è che noi non dobbiamo vincere, punto e basta. Quello che succede nell’altra partita non ci interessa.
Poi vado sotto la doccia e ci sto praticamente tutto il tempo della pausa. Mentre sento l’acqua scorrermi addosso ripenso agli ultimi avvenimenti, ai debiti, alle minacce. Non potevo fare nient’altro. Me lo ripeto, a convincermi, più di una volta.
Quando esco gli altri stanno già rientrando in campo, solo una persona, il magazziniere, è ancora nello spogliatoio. Sta ritirando le tenute sudate del primo tempo.
Il magazziniere Paolini è una di quelle figure che si trovano solo in certi ambienti. E’ molto anziano, nella squadra da una vita. Era già qui quando arrivai, a fare già quello che fa ancora oggi, a prendersi cura delle tenute, curare le scarpette, lucidandole e ammorbidendole con cura. A pensare ai tacchetti, consigliando quelli giusti ai più giovani e meno esperti. Soprattutto a stare vicino alla squadra, cogliendone gli umori, incitando e sostenendo quando è il caso.
Negli anni gli allenatori sono andati e venuti, i giocatori anche, ancora di più. Lui è sempre rimasto qui, come lo stadio stesso. Chiuso nel suo gabbiotto, a catalogare e pulire. E a ricordare.
Ricorda i numeri di scarpa di tutti quelli che hanno giocato nella squadra, i loro vezzi, le loro manie. Tutti gli umori, tutte le vittorie, tutte le sconfitte. Ricorda tutti quelli che sono passati di qui, i campioni ed i brocchi, anche quelli che hanno giocato una sola stagione: per lui sono stati comunque della squadra e questo basta a renderli parte di un qualcosa che solo lui percepisce.
E’ lui, a pensarci, la vera anima di questa squadra. Non chi gioca, non la dirigenza. Nemmeno i tifosi, che pure gli somigliano, possono esserlo. Lui sembra sapere qualcosa che agli altri è negato. A volte, da quello che dice, sembra l’anima del calcio stesso.
E’ stato anche un discreto mediano, da giovane.
Oggi è euforico. Incita tutti, per ognuno ha una parola, un dettaglio da ricordare, un ricordo da regalare. Per avvicinarli a quel tutto che lui solo conosce. Erano anni che non lo vedevo così, dall’ultimo scudetto. Mi chiede:
- Te lo ricordi il primo?
Lo guardo senza rispondere. Mi incammino verso il terreno di gioco.
Sì. Me lo ricordo il primo. Avevo diciannove anni, provenivo dalla serie B. Segnavo tanto già allora, dieci gol in quindici partite, contributo determinate per la conquista del titolo. Dopo ne sono venuti altri, più qualche coppa. Ho avuto una bella carriera, tutto sommato.
Il secondo tempo si avvia ad essere la fotocopia del primo. Aspettiamo. La squadra si batte comunque bene, creando occasioni da gol che noi sei della combine sprechiamo malamente. In fondo è facile: passaggi sbagliati, fuorigioco, tiri sbilenchi. Basta non dare il massimo. E’ alquanto irritante, perché i nostri avversari sono davvero modesti e facciamo fatica a trattenerci. Io poi faccio una fatica bestiale per permettere al difensore che mi controlla di marcarmi a dovere. Gli sto facendo fare una gran bella figura, facendomi anticipare spesso.
Al quindicesimo arriva la notizia del vantaggio della nostra rivale sull’altro campo. Ora i Campioni sono loro e lo stadio ammutolisce. La nostra panchina si sbraccia e strepita. I compagni che non sanno nulla dell’accordo si impegnano ancora di più.
Al ventesimo arriva mio malgrado una buona occasione: un lancio smarcante sulla sinistra, il mio controllore inciampa e non posso fare altro che dirigermi verso la porta palla al piede. Sparacchio un tiro che va abbondantemente sopra la traversa. L’ho fatto apposta, ovviamente, ma non sembrerebbe.
Il nostro pubblico non ha smesso di incitarci, ma è meno convinto, piuttosto attonito. Rumoreggia sui tanti palloni sprecati. Le imprecazioni si sentono anche dal campo.
Spesso con lo sguardo mi rivolgo verso la tribuna: a vedere da qui lo zoppo sembra soddisfatto del lavoro che stiamo facendo. Immagino stia già contando i soldi che intascherà.
Un compagno mi urla qualcosa che dovrebbe servire a svegliarmi. E’ di quelli che non sanno nulla, non capisce come faccio a sbagliare palloni tanto facili.
La farsa continua. Il mio controllore è decisamente una schiappa, in condizioni normali gli andrei via praticamente sempre. Invece ritardo sempre quell’attimo che gli permette di recuperarmi, dandogli modo di levarmi la palla.
Fila tutto liscio fino alla mezzora, poi uno dei nostri viene atterrato in area ed è calcio di rigore.
Mi incarico di tirarlo. Uno dei compagni corrotti, un difensore, si raccomanda. Veramente tutti si raccomandano, solo che lui si raccomanda al contrario.
Tiro il rigore, facendo il contrario di quello che si dovrebbe fare: aspetto di vedere da che parte si butta il portiere e tiro verso quella parte. Il numero uno avversario si ritrova il pallone in braccio ed esulta. Faccio finta di essere disperato, mettendomi le mani nei capelli.
I fischi mi sommergono, io resto fermo in mezzo all’area e mi guardo attorno: mi giro verso la tribuna e vedo lo zoppo applaudire ridendo; vedo il mio controllore abbracciare il suo portiere, i miei compagni venire verso di me e nonostante tutto incoraggiarmi. Sento il rumore dello stadio, le imprecazioni dei tifosi. Immagino cosa stia succedendo ora, in questo momento, sull’altro campo, dove le radio avranno già dato la notizia. Vedo i tifosi che esultano e i giocatori in festa.
Mi giro verso la nostra panchina:, l’allenatore si sbraccia ed urla ordini, tutti si agitano e bestemmiano, solo Paolini resta immobile al suo posto e mi guarda. Mi guarda e basta. Per un lungo, interminabile istante, i nostri sguardi si incrociano. Poi scuote la testa.
Riprendiamo a giocare. Manca un quarto d’ora alla fine, non è ancora finita.
Nei minuti successivi il mio controllore riesce davvero a marcarmi. Ora non faccio finta di giocare, qualcosa è cambiato. Mi accorgo che sto davvero giocando a calcio.
Dopo il rigore collezioniamo tre calci d’angolo. Su uno di testa mando di poco fuori a lato. Un mio compagno, uno dei centrocampisti corrotti, si avvicina a dirmi qualcosa.
– Occhio, c’è mancato poco.
Lo so, rispondo.
Nonostante il mio impegno tardivo il tempo scorre senza che accada nulla: siamo già a tre minuti dalla fine e ancora pareggiamo. Ormai, nonostante tutto, penso sia finita.
Ma poi… poi mi lanciano di nuovo sulla sinistra.
Un lancio lungo, dalla trequarti, smarcante. Questa volta il mio avversario non inciampa, anzi, sono io che con una finta gli vado via e corro dietro al pallone. Attorno a me, sugli spalti, tutti si alzano a seguire l’azione e vedono me palla al piede dirigermi verso la porta avversaria.
Mi accentro. Un terzino mi si fa incontro ed io rallento per vedere le sue intenzioni. Tenta un tackle, ma riesco ad evitarlo, saltandolo.
Ora sono solo, di fronte alla porta, a pochi metri dal limite dell’area.. Dietro di me, distante alcuni passi, sento il respiro affannato di chi mi insegue, oltre la porta intravedo le macchie scure dei fotografi e dei raccattapalle. La porta invece la vedo chiaramente, con la sua rete tutta bianca e il portiere in mezzo. Fa per uscire dai pali e mi viene incontro.
Entro in area. Faccio ancora un paio di passi, palla al piede. Il portiere si prepara al mio tiro, fermandosi di scatto, ginocchia piegate e braccia leggermente aperte. Alzo la testa per controllare la sua posizione, scarto leggermente a sinistra.
E poi calcio.
Un tiro forte, potente, dei miei. Di sinistro. Un collo pieno che supera il mio avversario, sfiora appena il palo e si infila nella rete, gonfiandola.
C’è un attimo di silenzio assoluto, un brevissimo istante che forse solo io noto, tra il momento in cui tiro con tutta la potenza che ho e la consapevolezza di aver segnato.
Poi il fragore mi inonda. Un unico enorme urlo accompagna la mia corsa a braccia alzate.
Corro a perdifiato, per tutto il campo, con i compagni che mi inseguono e urlano come me. Anche quelli della combine, urlano anche loro. Vengo raggiunto e sommerso dagli abbracci. La folla è in delirio e noi con lei, lo stadio sembra debba scoppiare da un momento all’altro, in un agitare di colori e di urla.
Ho ancora le braccia al cielo quando butto lo sguardo verso la tribuna. Lo zoppo è sempre seduto al suo posto, ma non sorride più.La poltrona che era occupata da Eva invece, è vuota. Di lei intravedo la sagoma che si allontana verso l’uscita.
Tiro giù le braccia e sorrido verso la panchina.
Abbiamo vinto.
2 commenti:
Avrei voluto giocare anch'io sinceramente.
adesso che sono riemerso..potresti chiamamrmi per quelche partita...
AngS.
La prossima stagione: il campionato è finito. :)
Posta un commento