Ci incontriamo io Bonetti e il Furbi al Caffè Roberto, ora di aperitivi, locale gremito. Aspettiamo piatto in mano Beppe Sarotto, come al solito in ritardo, e l'attesa ci snerva alquanto. Bonetti tenta di nascondere il nervosismo trangugiando olive ascolane e lanciando occhiate furtive verso l'entrata. Il Furbi appare tranquillo, ha la solita espressione che assume durante le crisi, con l'occhio sinistro leggermente strizzato, non molto ma abbastanza da alzargli la bocca quel tanto che basta a stampargli in faccia un mezzo sorriso da furbetto, da cui il soprannome.
Io bevo birra e mi guardo attorno.
La gente infreddolita - il riscaldamento è spento per via del razionamento - è accalcata ai banconi del cibo e parla poco, quasi nulla. Più che altro riempiono i piatti ben oltre la loro capienza, dando l'impressione che per molti quello è l'unico pasto della giornata e resterà tale fino alla sera successiva. Anche ai tavoli la gente è silenziosa, stretti nei cappotti, lo sguardo fisso al piatto. In sottofondo la filodiffusione trasmette musicaccia lounge intervallata dalle ultime disposizioni del Ministero del Bene Comune.
"Ma quando cacchio arriva Sarotto?" chiede Bonetti, visibilmente teso.
"Calma" risponde il Furbi "Avrà trovato traffico".
"Traffico? Ma se non c'è una macchina in giro"
"Lui viaggia in tram"
"Non ci sono manco più tram a quest'ora. Staccano alle 8 lo sai, no?"
"Avrà preso la bici"
"Lavora a due isolati da qui, cazzo prende la bici".
"Cazzo ne so. Cominci a stressarmi lo sai?"
"E basta" intervengo io, "tra poco arriva. E' in ritardo di solo quindici minuti e non è mai stato puntuale in vita sua".
"Come cazzo ha fatto il comando a affidargli l'operazione non capisco" dice Bonetti addentando l'ennesima oliva.
"Magari se non lo sbandieri ai quattro venti ci fai un favore" dice il Furbi, "Sai vorrei almeno cominciarla l'operazione, senza essere fermato come un pirla prima".
Le ultime parole le dice mentre una sirena della Polizia Pubblica sovrasta il sottofondo sempre più lounge. Hanno vietato l'ascolto di gran parte della musica Pre-Libertà perchè non consona ai nuovi valori ma quella l'hanno mantenuta, chissà perchè. Certo poteva andar peggio. Potevano salvare la bachata.
Finalmente Sarotto entra nel locale sempre più freddo e sempre più umido. Il Furbi gli fà un cenno con la mano ma Sarotto fa finta di non vederlo e va dritto al bancone. Sottobraccio stringe una cartellina rossa e indossa una specie di completo blu scuro e una coppola a quadrotti.
Lo vedo sporgersi oltre il bancone e parlare all'orecchio del barista, gli affida la cartellina e poi viene verso di noi. In faccia lo trovo diverso, ma ancora non so dire il perchè.
Bonetti manda giù l'ultima oliva ascolana e non è più così nervoso, io e il Furbi ci stringiamo per far posto al compagno capo dell'operazione, che più lo guardo e meno somiglia a Sarotto. Mi ricorda qualcuno, ma non mi viene in mente chi. Bah.
"Compagni" fa lui con aria greve, "è per stanotte".
"Cosa?" chiede Bonetti
"Come cosa" dice Sarotto lisciandosi il pizzo (ma ce l'aveva già quel pizzetto?)
"Eh, per stanotte. Cosa".
Sarotto pare interdetto. Guarda Bonetti, (che tra l'altro non somiglia più a Bonetti: sfoggia baffoni neri e capelli all'indietro e anche lui mi ricorda qualcuno ma mica mi viene chi) con l'aria di chi sta pensando "questo porterà solo guai", ma poi prosegue senza farci troppo caso.
"L'ora è giunta. Stanotte ci riprenderemo quello che è nostro, compagni. L'orrido regime del Bandana terminerà questa notte stessa. Tutto è pronto. Il barista sta provvedendo a nascondere gli ordini nel cibo dell'aperitivo, perciò occhio a non mangiare tutto, i bigliettini bisogna leggerli non mangiarli".
"Ma stai scherzando?" dice il Furbi che anche lui non somiglia più al Furbi e ora sfoggia un paio di occhialetti tondi. "E se finiscono in mani sbagliate?"
"Tranquillo. Qua son tutti dei nostri." e dicendo questo gira la testa a guardarsi alle spalle.
Ci guardiamo attorno anche noi. Il locale non è cambiato, ma la gente non è più vestita come prima, ora sfoggiano camice larghe senza colletto gli uomini, gonne lunghe e foulard in testa le donne: sembrano tutti usciti da un romanzo di Cechov. Stridono con la musicaccia in sottofondo e anche con i miei ricordi ma sembrano essere a loro agio e guardano tutti verso di noi alzando il bicchiere.
E poi a un tratto mi viene in mente a chi somigliano i miei amici, solo che ormai dei miei amici non hanno nulla e Josif Bonetti, Vladimir Sarotto e Leon Furbi parlano fitto fitto in una lingua piena di osky e di off che lì per lì non capisco ma che per qualche motivo strano comprendo ugualmente.
Josif Bonetti Stalin parla poco, si liscia i baffoni e lancia occhiatacce a Leon Furbi Trotsky. Vladimir Sarotto Lenin dal canto suo parla di continuo e ogni tanto sbrocca: tira fuori una ramazza e la agita roteandola sopra le nostre teste, agitandosi non poco. Gli faccio notare che a far cosi gli può prendere un coccolone ed è meglio che stia più calmo, ma ormai il nostro è lanciato: urla slogan a squarciagola, tipo quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare, strappa una tenda rossa dalla parete e si fionda all'uscita cantando l'internazionale. Trotsky gli corre dietro portandosi appresso tutti gli altri e restiamo il barista, io e Stalin nel locale ormai deserto.
Dalle casse della radio sentiamo il comunicato serale del Ministero del Bene Comune ed è il Bandana in persona che parla: tendiamo l'orecchio, magari è importante, invece è la solita barzelletta scema con le risate registrate.
Stalin si alza e fa per andare. Con lenti movimenti della dita si abbottona la giubba di tela bianca, mentre da fuori arriva l'eco dei primi spari. Lancia uno sguardo alla cassa acustica sopra la nostre teste e dice: "E' per questo che quell'uomo è destinato a perdere. Le barzellette proprio non le sa raccontare".
Poi, rivolto a me chiede "Tu che fai, non vieni?"
Io guardo l'orologio sul comodino, mi giro dall'altra parte e dico:
"Ancora cinque minuti, mamma".
Io bevo birra e mi guardo attorno.
La gente infreddolita - il riscaldamento è spento per via del razionamento - è accalcata ai banconi del cibo e parla poco, quasi nulla. Più che altro riempiono i piatti ben oltre la loro capienza, dando l'impressione che per molti quello è l'unico pasto della giornata e resterà tale fino alla sera successiva. Anche ai tavoli la gente è silenziosa, stretti nei cappotti, lo sguardo fisso al piatto. In sottofondo la filodiffusione trasmette musicaccia lounge intervallata dalle ultime disposizioni del Ministero del Bene Comune.
"Ma quando cacchio arriva Sarotto?" chiede Bonetti, visibilmente teso.
"Calma" risponde il Furbi "Avrà trovato traffico".
"Traffico? Ma se non c'è una macchina in giro"
"Lui viaggia in tram"
"Non ci sono manco più tram a quest'ora. Staccano alle 8 lo sai, no?"
"Avrà preso la bici"
"Lavora a due isolati da qui, cazzo prende la bici".
"Cazzo ne so. Cominci a stressarmi lo sai?"
"E basta" intervengo io, "tra poco arriva. E' in ritardo di solo quindici minuti e non è mai stato puntuale in vita sua".
"Come cazzo ha fatto il comando a affidargli l'operazione non capisco" dice Bonetti addentando l'ennesima oliva.
"Magari se non lo sbandieri ai quattro venti ci fai un favore" dice il Furbi, "Sai vorrei almeno cominciarla l'operazione, senza essere fermato come un pirla prima".
Le ultime parole le dice mentre una sirena della Polizia Pubblica sovrasta il sottofondo sempre più lounge. Hanno vietato l'ascolto di gran parte della musica Pre-Libertà perchè non consona ai nuovi valori ma quella l'hanno mantenuta, chissà perchè. Certo poteva andar peggio. Potevano salvare la bachata.
Finalmente Sarotto entra nel locale sempre più freddo e sempre più umido. Il Furbi gli fà un cenno con la mano ma Sarotto fa finta di non vederlo e va dritto al bancone. Sottobraccio stringe una cartellina rossa e indossa una specie di completo blu scuro e una coppola a quadrotti.
Lo vedo sporgersi oltre il bancone e parlare all'orecchio del barista, gli affida la cartellina e poi viene verso di noi. In faccia lo trovo diverso, ma ancora non so dire il perchè.
Bonetti manda giù l'ultima oliva ascolana e non è più così nervoso, io e il Furbi ci stringiamo per far posto al compagno capo dell'operazione, che più lo guardo e meno somiglia a Sarotto. Mi ricorda qualcuno, ma non mi viene in mente chi. Bah.
"Compagni" fa lui con aria greve, "è per stanotte".
"Cosa?" chiede Bonetti
"Come cosa" dice Sarotto lisciandosi il pizzo (ma ce l'aveva già quel pizzetto?)
"Eh, per stanotte. Cosa".
Sarotto pare interdetto. Guarda Bonetti, (che tra l'altro non somiglia più a Bonetti: sfoggia baffoni neri e capelli all'indietro e anche lui mi ricorda qualcuno ma mica mi viene chi) con l'aria di chi sta pensando "questo porterà solo guai", ma poi prosegue senza farci troppo caso.
"L'ora è giunta. Stanotte ci riprenderemo quello che è nostro, compagni. L'orrido regime del Bandana terminerà questa notte stessa. Tutto è pronto. Il barista sta provvedendo a nascondere gli ordini nel cibo dell'aperitivo, perciò occhio a non mangiare tutto, i bigliettini bisogna leggerli non mangiarli".
"Ma stai scherzando?" dice il Furbi che anche lui non somiglia più al Furbi e ora sfoggia un paio di occhialetti tondi. "E se finiscono in mani sbagliate?"
"Tranquillo. Qua son tutti dei nostri." e dicendo questo gira la testa a guardarsi alle spalle.
Ci guardiamo attorno anche noi. Il locale non è cambiato, ma la gente non è più vestita come prima, ora sfoggiano camice larghe senza colletto gli uomini, gonne lunghe e foulard in testa le donne: sembrano tutti usciti da un romanzo di Cechov. Stridono con la musicaccia in sottofondo e anche con i miei ricordi ma sembrano essere a loro agio e guardano tutti verso di noi alzando il bicchiere.
E poi a un tratto mi viene in mente a chi somigliano i miei amici, solo che ormai dei miei amici non hanno nulla e Josif Bonetti, Vladimir Sarotto e Leon Furbi parlano fitto fitto in una lingua piena di osky e di off che lì per lì non capisco ma che per qualche motivo strano comprendo ugualmente.
Josif Bonetti Stalin parla poco, si liscia i baffoni e lancia occhiatacce a Leon Furbi Trotsky. Vladimir Sarotto Lenin dal canto suo parla di continuo e ogni tanto sbrocca: tira fuori una ramazza e la agita roteandola sopra le nostre teste, agitandosi non poco. Gli faccio notare che a far cosi gli può prendere un coccolone ed è meglio che stia più calmo, ma ormai il nostro è lanciato: urla slogan a squarciagola, tipo quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare, strappa una tenda rossa dalla parete e si fionda all'uscita cantando l'internazionale. Trotsky gli corre dietro portandosi appresso tutti gli altri e restiamo il barista, io e Stalin nel locale ormai deserto.
Dalle casse della radio sentiamo il comunicato serale del Ministero del Bene Comune ed è il Bandana in persona che parla: tendiamo l'orecchio, magari è importante, invece è la solita barzelletta scema con le risate registrate.
Stalin si alza e fa per andare. Con lenti movimenti della dita si abbottona la giubba di tela bianca, mentre da fuori arriva l'eco dei primi spari. Lancia uno sguardo alla cassa acustica sopra la nostre teste e dice: "E' per questo che quell'uomo è destinato a perdere. Le barzellette proprio non le sa raccontare".
Poi, rivolto a me chiede "Tu che fai, non vieni?"
Io guardo l'orologio sul comodino, mi giro dall'altra parte e dico:
"Ancora cinque minuti, mamma".
4 commenti:
Semplicemente splendido!
Da pubblicare, Rouge!
P.S.: che bel sogno, vero?
Grazie Bastian, non è che fai l'editore per caso? Un saluto.
Bravo Rouge, davvero un bel post.
Potevi rimanere a letto ancora dieci minuti volendo.
Un caro saluto
Direi che abbiamo già dormito abbastanza, Libero. Non pensar male, è solo che mi mancava un finale :)
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