lunedì 17 dicembre 2012
Che traslocare è nel mio tema natale
sabato 15 dicembre 2012
Le stesse cose
martedì 11 dicembre 2012
Non gioco più
mercoledì 5 dicembre 2012
5 dicembre 2012
Annata strana.
Abbiamo azzerato tutto, quest'anno. Con o senza Maya, il lavoro è già stato fatto.
Lasciato andare situazioni, luoghi, lavori.
Amori.
Recuperato situazioni, altri luoghi, amici vecchi e nuovi, dispersi, qua sulla Terra.
Una fatica necessaria. Ricreare empatie, smuovere energie, rimettere in circolo movimenti.
Annata strana.
Da ricordare.
Come la giornata di oggi.
giovedì 29 novembre 2012
Che 'a vita è tant' amara
La cosa migliore è vedere Arbore a 1:45 trattenere a stento le risate.
mercoledì 28 novembre 2012
Mr. Sandman
martedì 27 novembre 2012
C'erano una volta
domenica 18 novembre 2012
La stagione delle nebbie
Non è mai semplice. Farlo volontariamente, intendo. Ci si aggrappa alle cose, alle situazioni, alle persone, anche se non ti rendono veramente felice, ma dentro hai quella cosa che va da sé, e ti trascina pure se non lo sai, se non la vuoi vedere. E allora a un certo punto tutto prende la direzione che inconsciamente vuoi, e ti ritrovi allo stesso risultato, vivere un altro contesto, ma arrivandoci attraverso un percorso doloroso. Sai, il dolore è una gran cosa, mantiene vivi, ma certo è meglio star bene che star male, e se stai male l'unica è sopportare, volendo nel frattempo star bene. E' come averci una qualche malattia, non la avresti voluta, l'avresti evitata, ma quando ormai ce l'hai l'unica è curarsela. Non si scappa da ciò. Non si scappa da sé.
giovedì 14 giugno 2012
mercoledì 30 maggio 2012
lunedì 28 maggio 2012
Stand by

Questa esistenza da rifugiato sta volgendo al termine, e le cose da fare si accumulano: una nuova casa da considerare propria; andarsi a riprendere ciò che è rimasto a far da peso per altri; riprendere contatto con quella che è stata la mia zona, per lungo tempo. Riallacciare rapporti, recuperare interessi messi da parte, perché i vuoti erano riempiti da una cosa sola, e tanto bastava, ed ero a pensarci felice che bastasse, in attesa di riaprirmi al mondo dopo tanta chiusura. Tornerò, sto già tornando, a fare cose, pure quelle che non mi interessano per davvero (tirare con l'arco mi interessa davvero? giocare a scacchi? Va beh, provare non fa male). A vedere gente, pure quelle che non interessano davvero: tocca farlo, in attesa di chi davvero interesserà. Poi altre cose, più pratiche: recuperare un pc per la nuova casa, per poter riprendere a commerciare in fumetti. E quel progetto di diorama che ho in una scatola da sette anni (problemi di spazio: non sapevo dove mettermi a farlo), forse è la volta che lo metto su. Ecco, alla fine finirò per fare di nuovo cose, vedere di nuovo gente, tutte quelle cose che ho fatto in anni passati, tutte quelle cose che alla fine fanno tutti. E' che adesso ho anch'io un vuoto enorme da riempire, in fondo.
venerdì 18 maggio 2012
Domani prendo casa

lunedì 14 maggio 2012
Caro diario

Cerco di tenermi concentrato sul futuro prossimo. Molto prossimo, non riesco ancora a proiettarmi oltre il prossimo mese. Ieri mio fratello mi ha chiesto cosa avrei fatto. "Affitto quell'appartamento e mi ci trasferisco", gli ho risposto. "E poi?" mi ha ancora chiesto. E poi. E poi, onestamente, che cazzo ne so? Vivrò, penso.
domenica 13 maggio 2012
giovedì 10 maggio 2012
Il gioco dell'oca

Ieri sera poi ho reincrociato vecchi amici nella solita piazza di sempre, due parole, un saluto. La domanda, ma che ci fai qua? Faccio Neffa, ho risposto, è il ritorno del guaglione sulla piazza. E poi, dopo esserci messi al corrente delle ultime vicende di tutti, tutte più o meno simili, conclusioni tutte più o meno le stesse, ce lo siamo detti, cavoli, sembra il gioco dell'oca: tira i dadi e vai avanti, torna al punto di partenza, paga pegno e penitenza. Nel tentativo di giungere al traguardo.
martedì 8 maggio 2012
Priorità

Comunque, devo trovare una nuova casa, possibilmente qualcosa in cui star bene come la prima volta in cui abitai da solo. Certo allora lo feci senza fretta, oggi è un pochino diverso, ma non si può avere tutto. E poi la parte più difficile: imparare da tutto questo e metterlo in pratica. Non è detto che ci riesca. Modificare il proprio essere non è semplice, accettare ciò che la tua natura rifiuta è complicato. Ma è la mia parte in questa storia, e vediamo di farla.
P.S.
Ho chiuso i commenti, ma non vi offendete, ho i miei motivi. Chi vuole può scrivermi via mail.
lunedì 7 maggio 2012
Ricomincio da tre

mercoledì 2 maggio 2012
Vortice

Il discorso è a doppio senso, ciò che vale per me vale per gli altri. E' una storia collettiva, o al minimo una storia doppia, ed è un gran casino, perché in questa storia i limiti sono opposti: qualcuno deve imparare a lasciar andare, qualcun altro deve invece imparare a trattenere, ma le posizioni di partenza partono dalla proprie nature e dunque le posizioni oggi sono quelle di sempre, chi dovrebbe lasciar andare trattiene, chi dovrebbe trattenere molla. Un gran casino, in cui tra l'altro ci si ritrova giustamente soli, perché i deus ex machina esistono solo nelle tragedie greche e qui non è proprio il caso di richiederli.
Non conosco la soluzione, ciò che accadrà, o ciò che è giusto, ciò che è sbagliato. In questo momento ho un solo pensiero e un solo desiderio, ma da solo non basta: l'uno da solo non conta nulla, il due è lì per creare il tre, il tre in questa storia è mancato e ora manca la volontà di cercare di ottenerlo. A vedere oggi, per tutto quello che è successo, per come è successo, era quasi scontato che mancasse. Il destino deve realizzarsi, è sempre inpegnato a scorrere le pagine del suo libro e a leggere la storia, a cui lascia aperto il finale affinché noi lo si scriva. Forse in questa storia è già stato scritto, e nulla c'è ancora da aggiungere. O forse c'è ancora tanto da scrivere, e questo era solo il primo capitolo. Impossibile da sapere. Se chiedete a me siamo appena alle pagine iniziali, ma uno da solo non conta nulla, anche se l'ho dimenticato troppo spesso. Certe storie si possono scrivere solo in due.
lunedì 23 aprile 2012
H.F.

giovedì 19 aprile 2012
I piccoli piaceri della vita (2)

La maggior parte della gente si identifica in qualcosa, uno non lo sa nemmeno di identificarsi in qualcosa, ma lo fa e diventa quella cosa lì, per cui tu mentre gli parli non stai parlando con un tizio provvisto di personalità e capacità di pensiero propria, parli in realtà con la protesi deambulante, non pensante ma telefonante di ciò di cui sono espressione. E' così che va, e ne ho le prove. Ieri ad esempio credevo di parlare al telefono con un collega impiegato (dipendente, stipendiato) seppure della famosa ditta Taldeitali che lavora per l'ancora più famosa ditta Talaltra, con i miei stessi identici problemi di lavoro, ma proprio uguali uguali, e mi sono accorto invece che questo si rivolgeva a me non solo come se la Taldeitali fosse sua e la Talaltra fosse sua signora e padrona, ma come se io fossi il povero pirla schiavetto la cui unica missione nella vita è soddisfare i desiderata suoi, della Taldeitali e soprattutto della Talaltra.
E' stato un vero piacere mandarlo a cagare.
domenica 15 aprile 2012
sabato 31 marzo 2012
Storie

venerdì 30 marzo 2012
Una storia semplice

C'è da dire a questo punto che all'epoca ero abbastanza un rompicoglioni, e non le mandavo a dire sulle cose che non andavano li dentro, tipo aumenti di produzione e robe simili (quindi, se all'epoca si fosse potuto licenziare per motivi finti economici in realtà disciplinari, di certo sarei stato messo alla porta, ma c'è da dire due cose: uno, non avrei pianto; due, me lo sarei meritato). Ma andiamo avanti. Quando scatta la cassa integrazione straordinaria, quella a zero ore dove guadagni parecchio meno, mi lasciano a casa tutto il tempo tranne le due settimane delle feste di natale (che combinazione!), poi vado in mobilità e non rivedo la fabbrica per oltre un anno. Nel frattempo la ditta viene acquistata da una cordata di soci ex impiegati dell' azienda stessa facendo un accordo con i sindacati e una banca locale (dello stesso paese del sindacalista che ci seguiva) dove sono girati i nostri crediti dell'inps e dove noi siamo in pratica obbligati ad aprire un conto. Probabile che fosse tutto legale, non mi interessa e non interessava a nessuno: l'importante all'epoca era salvare il posto di lavoro. Lo salvammo, e dopo un po' cominciarono a richiamare il personale lasciato a casa (tranne quelli prepensionati e quelli che nel frattempo avevano trovato altro). Io, che pure avevo trovato altro da fare, mi intestardii e aspettai il momento di rientrare: in pratica furono obbligati a riprendermi, perché non avrebbero potuto assumere gente nuova se prima non richiamavano tutti i vecchi ancora disponibili.
Prima della "crisi" lavoravo al tornio, due macchine manuali, due operazioni, un particolare finito. Quando rientrai avevano associato alle due macchine una macchina automatica (non scendo in dettagli: chi ha lavorato in fabbrica sa di cosa parlo), quindi quattro operazioni, due particolari finiti. Considerato che la produzione richiesta sulle manuali era stata abbassata di poco, in pratica nello stesso tempo gli facevamo quasi il doppio del lavoro, il tutto senza una lira di aumento.
Siccome ero un rompicazzo feci presente la cosa al responsabile sindacale, chiedendo che siccome stavamo rimettendo in piedi la baracca producendo quasi il doppio di prima allo stesso prezzo, che almeno ci fosse un ritorno per noi in busta paga. Il responsabile sindacale, che nel frattempo aveva fatto carriera passando da operaio a capoturno, quindi teneva sia le riunioni sindacali che quelle dirigenziali (un bel conflitto di interessi in piccolo), mi rispose che "da altre parti era pure peggio", che "ormai il lavoro anche in altre ditte era così", che "se vuoi stare sul mercato bisogna fare così", e "ancora grazie aver salvato il posto". La mia risposta fu restituire la tessera sindacale e cominciare ad attivarmi per andare via da lì.
Poi, vabbeh, è andata come è andata.
martedì 27 marzo 2012
Il Piave mormorava

Dunque, dal mio punto di vista, la battaglia è perduta, hanno vinto, loro, le destre, i padroni, e tanti discorsi sono diventati inutili ed è una resa incondizionata la mia: fate quel che volete, cari Monti e Fornero e compagnia tecnica legiferante, ché a impedirvelo non ci penso nemmeno. Perché a questo punto è meglio che tutto vada beatamente in vacca, ma sul serio, e quando non rimarranno che macerie sarà l'occasione per poter ripartire, finalmente, forse, da altre basi.
Volete quindi abolire l'art.18, in maniera che un datore di lavoro può levarsi dalle scatole soggetti scomodi o solo antipatici senza che qualche giudice comunista intervenga a reintegrarlo? Bene, fatelo pure. Se in cambio mi date davvero un paio d'anni di mensilità accomodatevi, che problema c'è? Dubito che le cose stiano davvero così, che in realtà uno poi si ritrovi senza lavoro e senza indennizzo, ma va bene, va bene, nessun problema. Se poi in aggiunta davvero mi levate dalle scatole quelle forme di sfruttamento legalizzato che sono le finte partite iva e gli stage non retribuiti e tutte quelle formule contrattuali che negli anni sono state create anche e soprattutto da governi di centrosinistra, benissimo: accomodatevi, qui davvero vi ringrazio. Visto che la maggioranza delle persone è stata troppo fessa per fare i propri interessi, e dunque negli anni ha accettato e ancora continua ad accettare l'inaccettabile, pensateci voi e levategli finalmente l'alibi del padrone brutto e cattivo che vuole solo sfruttare il proprio dipendente (no, non guardate me, io chi mi ha proposto contratti da fame, due mesi non retribuiti, dieci ore di lavoro al giorno, li ho bellamente mandati a cacare, anche se ero disoccupato). Che tanto voi professori legiferanti lo sapete da tempo che noi dipendenti e loro datori di lavoro siamo sempre più simili e ci avviamo entrambi a mangiare la stessa merda, no?
Fate quel che volete dunque, andate alla sostanza delle cose, ogni tanto tocca farlo, pure se le vie scelte sono così incomprese (si parla tanto di decrescita: dove porta tutta 'sta roba, se non a quello? Certo noi ne immaginavamo di altro tipo, ma tant'è.....). Non vi preoccupate di noialtri, da queste parti non si è capaci di nulla se non badare alla forma, che tanto ci piace. Ci avete portati al Piave; noi ora come fessi scendiamo in trincea e poco importa se ci si lancerà anima e corpo nella difesa del Santo Principio che ormai tutela quattro gatti (è così, pensateci, purtroppo è così), evitando di lottare per altro. Per dire, io sciopero per sciopero, lotta per lotta, a questo punto chiederei, che ne so, tipo minimo quattrocento euro al mese di aumento in busta paga per tutti i lavoratori dipendenti, che sarebbe solo un modo per ripigliarsi una parte di quanto ci hanno rubato. Tanto, bisogna lottare no? E invece lottiamo per difendere il diritto a non essere licenziati per come gli gira (bello, giusto, sacrosanto, sì sì), e continuiamo pure a rimanere sottopagati. Che poi, magari la spuntiamo pure: tranquilli, lo salviamo l'art.18! E' per farne cosa che comincia a sfuggirmi.
giovedì 22 marzo 2012
lunedì 19 marzo 2012
Belleville

sabato 10 marzo 2012
Dio è morto, Marx è morto, ora pure Moebius

venerdì 9 marzo 2012
Servi della gleba 2.0

Combatto dicevo, ché al mattino causa demotivazioni e incertezza nel futuro è sempre più pressante la tentazione di girarsi dall'altra parte e continuare a dormire, ma per il momento rimane più forte il senso di responsabilità verso ormai non si sa più bene cosa e dunque si va a lavorare, speranzosi in un avvenire che consenta prima o poi, e ci si augura prima, di lavorare meno a parità di salario, ché la vita è solo una e cose migliori da fare ce ne sarebbero tante, oppure di lavorare uguale ma guadagnando di più, in maniera da godersi prima o poi il frutto di tanta svendita del proprio preziosissimo tempo. Ma poi ti arriva uno come tale Ignazio Visco, Governatore della Banca d'Italia, e ti dice che bisogna "lavorare di più, in più e per più tempo", e la sensazione che ci abbiano veramente fottuti diventa una sconfortante certezza.
Urgono nuove strategie.
mercoledì 7 marzo 2012
Il mondo di fuori

Aspetto.
Sì, avrei potuto farlo. Lanciare di nuovo qualcosa di mio addosso a qualcuno. Non che sia una gran soddisfazione alla fine. E’ troppo il trambusto che segue quel gesto. Magari nel momento in cui la mano va a posarsi sulla suola della calzatura per sfilarla, in cui la mente già vede il percorso che farà qualche attimo dopo, quel gesto può sembrare liberatorio, un moto di energia che si propaga nell’aria fuoriuscendo da dove trabocca, ristabilendo per un attimo l’equilibrio. Ma è un attimo, appunto. Dopo sei solo uno con un pigiama azzurro mare e una pantofola in meno ai piedi, con un sacco di sguardi fissi addosso, più fastidiosi di quello che volevi scacciare, e magari tocca pure sentire parole parole parole e tutto il resto. Insomma, non ne vale molto la pena.
"Ecco”, mi dico mollando la presa delle dita e provando a far rientrare l’aria attraverso il naso, “sono guarito!”, ma il respiro mi sembra ancora troppo affannato, l’odore ancora troppo forte e l’attenzione ancora troppo rivolta verso quella parte di me che regola il flusso d’aria per essere guarito veramente. Chiudo gli occhi e ci provo, ad allargare la veduta, ma tutto ciò che riesco a fare in questo momento è richiudermi le narici, respirare forte con la bocca e, più che altro, aspettare, aspettare, aspettare.
La prima volta che sono venuto qui in questa stanza c’era più gente attorno a me. Non era una bella giornata. Io ero sempre seduto su questa sedia, esattamente a metà della parete, ma ai fianchi avevo mia madre da un lato e mio padre dall’altro. La simmetria era rovinata da mio fratello, ha un vero talento nel rovinare le simmetrie, lui. Stava in piedi di fronte alla finestra a sinistra, guardava fuori e moriva dalla voglia di fumare una delle sue stupide sigarette col filtro bianco: un elemento di disturbo in un quadro altrimenti perfetto. Ci aveva portati lui qui tutti quanti e il viaggio era stato piuttosto silenzioso, dopo tutto il baccano che lo aveva preceduto, poche indispensabili parole per tutto il tragitto, con lui che lasciava parlare le sue sigarette tutte bianche. Guidava silenzioso e fumava, con mio padre a fianco e io e mia madre seduti dietro. Lei aveva l’aria preoccupata, ma è tipico di mia madre avere l’aria preoccupata, mio padre invece sembrava più normale, forse rassegnato. Mio fratello sembrava scocciato. In effetti aveva dovuto prendere una mattinata libera dal lavoro per portarci tutti quanti in questo posto e la cosa lo disturbava, anche se non lo diceva apertamente. Più che altro fumava e dalla quantità di cicche spente potevi capire tutto il suo nervosismo nel dover fare quello che stava facendo. Che poi, non è che stesse facendo chissà cosa. Guidare un’automobile con tre passeggeri a bordo verso un ospedale alle dieci del mattino. Forse era scocciato per via che la mamma lo aveva svegliato nel cuore della notte a causa mia, ma allora la colpa era della mamma, non mia, e non capivo perché quando arrivò mi salutò a stento.
E’ sempre stato strano questo mio fratello. Bravo, niente da dire, e pure gran lavoratore. Parlava sempre poco, e la cosa mi piaceva molto, anche se in quel poco riusciva a smontare tutto quello che facevo. O che non facevo. Insomma, questo mio fratello sembrava fosse stato piazzato lì per qualche oscuro motivo a badare a tutte le faccende che mi riguardavano, e in tutte ci trovava qualcosa da ridire, e in tutte sembrava ci fosse sempre qualcosa da correggere. Un gran rompicoglioni, ad essere sincero.
L’attesa per il colloquio giornaliero con il medico che mi tiene in cura è molto fastidiosa. Nella stanza tutta bianca dove mi trovo non c’è nulla che possa permetterti di trascorrere il tempo senza dover pensare a te stesso, all’aceto e a come respiri. L’unica distrazione è data dai due manifesti sbiaditi appesi alla parete di fronte, ma li ho già letti tanto da sapere a memoria cosa c’è scritto, e non è che siano tanto interessanti. Di più: qualcosa in loro me li rende decisamente antipatici. Il primo è uno stupido poster di propaganda per la donazione del sangue, talmente vecchio che ricordo di averlo visto già parecchi anni addietro e che, ora che ci penso, non mi è mai piaciuto. Ci sono disegnati quattro scolaretti sorridenti dall’aria tutta per benino che fanno girotondo scambiandosi fiori rossi, e ognuno di loro reca sul grembiulino una scritta con quello che deve essere il proprio gruppo sanguigno, e una scritta in alto a destra chiede A che gruppo appartieni?, perché Saperlo può salvare la tua vita, e una scritta enorme in basso reca l’acronimo dell’associazione donatori, e allora il tutto è un modo che hanno questi donatori di far proseliti, immagino. Il tutto, scolaretti e scritte e domande, in un campo verde acido che disturba gli occhi. Sarebbe stato meglio un campo rosso a mio avviso, dato che parliamo di sangue, perché a me tutto l’insieme non richiama affatto il sangue, né mi spinge a donarlo, anzi tutto il contrario, perché gli scolaretti sono disegnati veramente male e sono troppo per benino e non mi ispirano nessuna simpatia. Mi ricordano certi compagni che avevo al tempo delle elementari, sempre ben vestiti e ordinati e col padre fuori in auto ad attendere. Anzi, ora che ci penso, uno di loro, quello biondo, mi ricorda quello che aveva detto alla maestra che io gli avevo rubato non so che merenda, e la maestra lo aveva detto alla direttrice, e la direttrice lo aveva detto a mia madre, e la notizia, dopo tutto questo passaggio femminile, era finita alle orecchie di mio padre e in ultimissimo passaggio alle sue sberle, maschilissime nonostante l’apparenza. Per cui se la mia vita non verrà salvata, non essendomi mai premurato di sapere a che gruppo sanguigno appartengo a causa della mia avversione verso le donazioni nata da una avversione verso uno stupido poster contenente messaggi che per me andavano oltre le scritte e i disegnini, ciò è a causa di una merenda mai rubata e soprattutto di uno stronzetto biondo col padre fuori in macchina ad aspettare. L’altro poster mi è antipatico perché c’è il mare, e a me non piace il mare.
Potrebbero mettere qualche rivista. Uno potrebbe venire qua dentro, sedersi su una qualunque delle sedie tutte uguali e sfogliare una rivista. Gli impedirebbe certo di concentrarsi su inutili donnette in camice azzurro che spargono troppo detergente, sul detergente che sa troppo di aceto e di conseguenza sul funzionamento del proprio respiro. Ne guadagnerebbe, il respiro, se ci fosse una rivista a distrarre e non solo due inutili manifesti. Anche solo una di quelle stupide riviste mediche che abbondano nella stanza del dottore che mi ha in cura. Non sarebbe molto interessante neanche quella, ma uno passerebbe il tempo, lo ingannerebbe, si dice. Evidentemente in questo posto non sono ammessi inganni, verso nessuno, nemmeno verso entità immateriali. Peccato. Sarebbe stato un buon modo di trascorrere i minuti che passano dalla tua entrata in questa stanza tutta bianca e il momento in cui dovrai lasciarla per sederti di fronte a un signore in camice lungo, tutto bianco, e parlare.
2.
Il dottore ha la faccia scura. Una barba ispida e grigiastra gli ricopre metà del volto, con peli che gli arrivano fin sulle gote, quasi a ridosso di quei due occhietti piccoli e neri sormontati da sopracciglia troppo folte. Anche le mani sono pelose, troppo, e affusolate oltremisura. Brutte a vedersi: sbucando fuori dal bianco delle maniche appaiono come due enormi ragni in attesa di cibo. Non mi piacciono. Neanche lui mi piace, è troppo peloso: sbuffi neri e grigi di pelo che fuoriescono dappertutto. Dalle maniche, da dietro il collo, dal petto davanti! Tanto pelo superfluo è mitigato da una pelata lucida e tonda, quasi perfetta. Sembrerebbe che la natura abbia voluto bilanciare tanta abbondanza pilifera a scapito dei capelli, ma il tutto gli dona un’aria piuttosto ridicola. Fuma sigari toscani. Non qui naturalmente, ma l’ho visto un paio di volte giù in cortile e comunque l’odore di tabacco che emana è così forte che riesce a soffocare anche l’odore dell’aceto della donnetta troppo bassa. Non saprei dire quale è peggio. Forse l’aceto, a pensarci. Sarà che una volta anch’io fumavo, sigarette, poi sono entrato qua dentro e me ne sono dovuto dimenticare.
Ha uno strano modo di guardarmi, il dottore. Di sottecchi, non saprei dire. Comunque un po’ mi disturba. A volte quando mi soffermo sui suoi occhi troppo piccoli e troppo scuri mi viene voglia di tirargli addosso la prima cosa che mi capita, ma mi trattengo, non so bene perché. Forse per via che poi mi chiederebbe il motivo per cui gli ho lanciato addosso qualcosa, e non sono troppo sicuro del fatto che avere occhi troppo piccoli e troppo scuri sia un motivo bastante per riceversi cose addosso. Voglio dire, non è come per la donnetta dell’aceto o come per la donna grassa del cibo schifoso, che è evidente che se lo meritano che qualcuno gli lanci addosso qualcosa, ma per qualche strano motivo penso che anche lui se lo meriti. Almeno, così mi sembra.
I nostri colloqui avvengono da seduti, anche se avrei preferito che avvenissero come si vede in certi film, io sdraiato sul lettino e lui seduto dietro di me. Sarebbe stato meglio, penso. Più comodo. Avrebbe potuto anche fumare uno dei suoi sigari puzzolenti se proprio avesse voluto, non mi avrebbe dato fastidio. O forse sì. Forse l’odore del suo sigaro mi avrebbe costretto a concentrarmi sul respiro, a tapparmi le narici e a pensare ad altro come per l’aceto della donnetta troppo bassa, e allora è meglio che avvengano come ora, seduti, uno di fronte all’altro con una scrivania di mezzo come a un colloquio di lavoro: io che cerco la posizione meno imbarazzante, lui con i gomiti a bucare i braccioli, le mani pelose davanti al naso, le dita appoggiate le une contro le altre. Ogni tanto le apre e le chiude, ogni tanto le flette e le riallunga. Sembra un enorme ragno allo specchio.
Chiede cose, sempre le stesse. Io dico cose, sempre le stesse. D’altronde qui dentro non ci sono grosse novità, a meno che non lanci qualcosa contro qualcuno, e questo è da un po’ che non capita, e quello che è successo fuori di qui non lo si può più cambiare. Dico cose generiche, come sto, cosa penso, cose così. Ogni tanto il dottore peloso annuisce, ma più che altro mi guarda con quegli occhietti bui e mi ascolta. Non saprei dire quale di queste cose mi dà più fastidio.
Ripete diverse volte la parola “bene”. All’inizio pensavo che se ripeteva così tante volte la parola bene fosse perché le cose andavano davvero bene, ma poi mi sono accorto che la ripeteva anche quando le cose non andavano affatto bene, un po’ come quando ti chiedono come va? e tu per riflesso dici bene! anche se non va bene per niente e anzi spesso le cose vanno decisamente male, e allora ho smesso di farci caso e lascio che dia aria alla bocca in quel modo, se gli fa piacere. Dopo un po’ il colloquio finisce, ultimamente è sempre più breve, e io mi ritrovo in piedi fuori dalla porta nella stanza tutta bianca piena di sedie tutte bianche.
Penso sempre, in quel momento, che forse avrei potuto dire di più. Fare come una volta, parlare, dire, spiegare. Perdere tempo a raccontare cose di me avvenute in anni remoti, pure le cose senza importanza, che anzi pare che siano proprio le cose senza importanza ad interessare maggiormente il dottore peloso dalle mani di ragno. Non so il motivo, o a cosa gli serva saperle. Io il nesso tra il fatto che a nove anni una volta piansi un giorno intero, perché ero convinto che mia madre fosse morta, e il trovarmi oggi qui dentro non riesco a trovarlo. In realtà non era affatto morta, era solo partita per andare da quella sua parente nell’altra città e non sarebbe tornata a casa quella sera, ma io ero convinto che fosse morta e che non volevano dirmelo. Comunque non gliene facevo una colpa, anzi, li perdonavo, mio padre e mio fratello. Pensavo fosse una bella cosa da parte loro preoccuparsi di non farmi sapere una cosa brutta come il fatto che la mamma fosse morta, e gli dicevo grazie, e loro non capivano perché insistessi in quelle domande su dove la avrebbero seppellita e su come avrei dovuto vestirmi per il funerale. Il tutto ovviamente in un mare di lacrime che però a un certo punto non distinsi più se fossero per la madre morta in quanto tale o se per la commozione di vedere me così emozionato e sensibile, seppure verso un qualcosa tanto triste come una madre morta. Dubbi non da poco, se proprio vogliamo andare a scavare, ma non è compito mio andare a scavare. Diciamo che dovrebbe essere il dottore peloso con le mani di ragno a scavare e trovare interpretazioni, semmai ce ne fossero. Invece lui si limita ad annuire e a dire bene. E allora bene, che devo fare? Me ne sto lì, in piedi fuori dalla porta per qualche secondo, il tempo necessario a vedermi, per poi uscire via dalla stanza veloce, senza voltarmi.
3.
Non è semplice. Un giorno andava tutto bene e il ricordo dopo sono qui, davanti a una finestra chiusa, a guardare dai vetri sporchi la vita di fuori e a chiedermi perché sono qui dentro. Fanno quasi tre anni. Io ci ho pensato tante volte, al perché sono qui dentro. Qualche volta mi pare anche di capirlo, veramente, ma davvero non è semplice.
Non che mi manchi molto, la vita di fuori. Ogni tanto vengono mio padre e mia madre, e mi raccontano un sacco di cose. Cosa hanno fatto, cosa non hanno fatto. Tutte cose senza nessuna importanza. Sono sempre sorridenti quando vengono, ma io lo so che sono sorrisi provati ad arte. Sembra che si sentano in colpa per il fatto che mentre io me ne devo stare qui dentro a guardare il mondo di fuori da una finestra chiusa, loro invece in quel mondo ci possono vivere e muovere. In colpa per quella che ritengono una situazione più fortunata rispetto alla mia, e per questo sorridono forzato, e per questo sperano sempre che io esca da qui. Punti di vista.
Evitano come la peste ogni riferimento ai giorni che precedettero il mio arrivo qui, ma io lo so che quei giorni sono in cima ai loro pensieri. Più che altro si domandano il perché. Il perché, quello non lo hanno mai capito, e io non mi sono mai premurato di tentare di spiegarglielo: sono cose che ci devi arrivare da solo, penso. Comunque mi rendo conto che non è facile capire perché a un certo punto ho fatto quello che ho fatto, con tutte le conseguenze del caso, non solo per me. Oggi, di tutto quel baccano di parole e gesti e situazioni che precedettero il mio arrivo in questo posto, come conseguenza rimane che loro vivono fuori ed io vivo qua dentro, e ciò comporta silenzi da parte loro nel loro stupido mondo, e un senso di vergogna che li prende quando devono accennare a me. Ma non è che io abbia poi fatto chissà che di vergognoso. È di questo posto che si vergognano, e del fatto che un loro figlio ci viva dentro, e questo nonostante a quel loro figlio, cioè a me, la cosa sia del tutto indifferente, per cui non ci sarebbe proprio nulla di cui vergognarsi. Ma è opinione comune in quel loro mondo di fuori che questo sia un posto di cui vergognarsi, a maggior ragione se uno dei tuoi figli ci è finito dentro, e i miei sono gente a cui piace sentirsi a proprio agio nel mondo in cui fanno e non fanno cose, per cui si adeguano al pensiero corrente e dunque alla vergogna, vera o presunta non ha molta importanza. Ecco, io quando vengono a trovarmi e avverto in loro quel senso di vergogna gli lancerei addosso qualcosa, un po’ come feci quella sera che precedette la mia entrata in questo posto, non fosse che come per il dottore peloso dalle mani di ragno non sono troppo sicuro del fatto che se lo meritino. Quel mio fratello invece sì, che si merita che qualcuno gli lanci delle cose addosso, e l’ho anche fatto, l’ultima volta che è stato qui a trovarmi. Aveva preso in quel suo modo saccente e fastidioso a spiegarmi le cose, perché lui sa tutto capisce tutto ha in mano sempre le chiavi di tutto. Lui non ha mai avuto dubbi! Mai, neppure una volta! Le cose le ha capite da subito. Per dire, lui finite le medie disse voglio fare la scuola per geometri, e a chi gli chiedeva perché rispondeva che gli piacevano le case, per cui nessuno si stupì quando poi decise di diventare architetto e ancor meno si stupì quando davvero lo diventò e cominciò a costruirle, le case, tra l’altro pure belle devo dire. Insomma, in quelle poche parole dette a quindici anni lui aveva fatto tutto un discorso, prima a sé e poi agli altri, che lo vedevano proiettato in un futuro incanalato in una ben precisa direzione che lui aveva già bene in mente. Gli anni successivi gli erano serviti solo per mettere in pratica una cosa che già sapeva, oltre che per fare da esempio a me che invece a quindici anni nemmeno mi chiedevo cosa davvero mi piacesse, e tantomeno cosa mai avessi voluto fare da lì in avanti. E tutto questo esempio, vantato e indicato da genitori soddisfatti, di come si deve fare per viver bene nel mondo di fuori, a me non è mai piaciuto –mi dava la stessa sensazione del troppo aceto sui pavimenti- e non l’ho mai seguito, seppure in qualche parte di me deve essere andato a infilarsi, se è vero che a ogni mio fallimento torna su assieme alla voglia di lanciar cose addosso a qualcuno.
Il mondo di fuori. Io il mondo di fuori l’ho conosciuto, e per un sacco di tempo ne ho fatto anche parte. Facevo e non facevo le stesse cose senza importanza di cui raccontano i miei genitori quando vengono a trovarmi e che mi elencava quel mio fratello quando ancora ci veniva, prima che gli tirassi addosso quella bottiglia e lo facessi arrabbiare e gli facessi decidere che era il caso che non venisse più. Alcune di quelle cose le facevo perché credevo mi potessero piacere, altre perché quelle sono le cose che si fanno quando vivi una vita calato in quel mondo. E’ diverso da qui, non so spiegare. L’unica cosa che so è che a un dato momento tutto cominciò a sembrarmi come se a fare quelle cose fosse un altro. Mi vedevo fare e non fare cose e ne ridevo, tra me e me dapprima, poi ne ridevo e basta, sguaiatamente. E nello stesso tempo mi accorsi di come le cose, tutte, puzzassero di un odore pungente da levare il respiro, e che il più delle volte a spargere odori era chi mi stava attorno. I miei colleghi, in quell’ufficio con una sola finestra dove trascorrevo gran parte della giornata. I miei genitori, a casa, e quel mio fratello, quando veniva a trovarci. Tutti toccavano cose, calpestavano suoli, occupavano spazi che dopo poco cominciavano ad emettere odori soffocanti, che mi costringevano a tapparmi le narici, a concentrarmi sul respiro e a lanciare oggetti verso di loro, nel tentativo di mitigare la puzza, per non far sì che la puzza mi entrasse dentro. Andò avanti così per un po’, poi decisero che dovevo venire qui dentro, ma non è poi così male, qui dentro. Attorno a me gente che vive fuori di qui è indaffarata in cose che pensano abbiano un senso. Altra gente, che invece qui dentro ci vive, non si pone il problema e campa i propri giorni, all’apparenza tutti uguali. Anch’io vivo giorni all’apparenza tutti uguali. Parlo col dottore peloso dalle mani di ragno, passeggio dentro il caseggiato tra corridoi appena lavati da donne troppo basse, mangio il cattivo cibo servito da donne troppo grasse, guardo il mondo di fuori da una finestra troppo sporca, per ore ed ore.
Restare qui, alla finestra a guardar fuori, è la cosa che più mi piace. Sotto di me vedo la gente che passa, in auto, a piedi, da soli, in compagnia. Sono in tanti lì fuori. Li vedo fare cose, non fare cose, muoversi e andare verso direzioni che forse davvero conoscono bene e davvero è ciò che vogliono raggiungere. Come quel mio fratello. O forse sono come me, come ero io prima di avvertire gli odori, prima che lanciassi cose, prima di entrare qui dentro. Difficile dirlo, non è un mio problema, comunque mi piace il fatto di sapere che io posso stare a guardarli fare e non fare cose da qui, dalla finestra, senza dover fare e non fare le stesse cose io stesso. Giusto appoggiare, come ora, la fronte al vetro e lasciare che un sole pallido d’aprile mi scaldi la testa. E’ piacevole come sensazione.
Mi guardo attorno. Non è poi così brutto stare qui dentro, per quanto la donna grassa cucini veramente male e il dottore peloso dalle mani di ragno dica bene senza conoscerne davvero il significato. Si può sopportare. Spesso la donnetta bassa mette troppo detergente nel secchio saturando l’aria di aceto, e mi obbliga per questo a concentrarmi sul respiro, ma basta turarsi le narici e pensare ad altro: non è difficile, ormai so come fare. Per cui penso proprio che vorrei restare ancora qui, almeno per un po’. Per continuare a farlo mi basta poco. Mi basta parlare ogni giorno col dottore peloso, mangiare tutto quello che mi passano e ogni tanto lanciare qualcosa di mio addosso a qualcuno. Qualcuno che se lo meriti. In fondo lo si trova sempre. Basta guardare.
sabato 3 marzo 2012
sabato 25 febbraio 2012
Figli dei tempi

martedì 21 febbraio 2012
venerdì 17 febbraio 2012
Come in una fiera dell'est

E allora dice che fai? In apparenza niente, si aspetta che la voglia di lavorare ritorni. In realtà provi e riprovi a districare e dare corpo alla matassa di cui sopra. Spezzare il cerchio, avverrà prima o poi (i pensieri sono sostanza in embrione), anche se quarantaquattro primavere hanno insegnato che sembrerà non dipendere da te. O forse non ci si riuscirà e si rimarrà intrappolati nel circolo viziosissimo fatto di pensieri-aspirazioni-desideri-progetti-velleità-sogni-frustrazioni, come oggi, a volte di più a volte di meno. Forse a voi non sembrerà, ma pure questo è vivere.
mercoledì 15 febbraio 2012
Modelli

domenica 5 febbraio 2012
Confessione (di un malandrino)

E poi, poi è successo qualcosa, pochi anni dopo, qualcosa che me lo ha fatto lasciare indietro quel mio cantautore preferito. Non l'ho più seguito, di colpo, ma senza motivo apparente. Non ne ho perso le tracce, ho solo evitato di approfondire. Non so perché. Forse ero solo cresciuto, e crescendo sembrava brutto ammettere che le emozioni che dava erano troppo forti. Una cosa stupida a pensarci, perché ancora oggi io non sono cambiato (il cuore ed i pensieri son gli stessi), o almeno non così tanto. O forse inconsciamente ho voluto legarlo a quel periodo, chiuderlo in una bolla, tenermelo caro, perché il ricordo non sfiorisse, perché niente ne rovinasse il sapore. Una cosa ancora più stupida.
Continua a fare musica Branduardi, nel suo solito poetico modo, e io mi sono perso parecchio negli ultimi trenta anni: rimedieremo, in qualche maniera. Tra una settimana compie gli anni, già sessantadue. Auguri.